mercoledì 16 settembre 2009

17. Israele

Nel 1993 Arafat, e Rabin sottoscrivono la Dichiarazione dei principî di Oslo, che prevede il riconoscimento reciproco tra Israele e Olp, il ritiro israeliano dai territori occupati e l’autonomia di governo dei palestinesi nei loro territori, che sono la Cisgiordania, la striscia di Gaza e Gerico. Sulla scia di questo nuovo corso nasce la cosiddetta Autorità nazionale palestinese (ANP), di cui diviene presidente lo stesso Arafat, ma lo stato delle cose non cambia: l’occupazione israeliana continua, i patti di Oslo non vengono rispettati da entrambe le parti e lo stesso Rabin viene assassinato (1995). I rapporti fra ebrei e palestinesi rimangono tesi e, nel 2000, in risposta al fallimento dei colloqui Arafat-Barak, si assiste ad una brusca interruzione del processo di pace e allo scoppio di una seconda intifada.
Nel 2001, dopo l’ennesimo fallimento di una trattativa di pace promossa dal presidente americano Clinton, viene eletto a capo di governo Ariel Sharon, che adotta una linea piuttosto dura rispondendo sistematicamente con bombardamenti agli attacchi kamikaze dei Palestinesi, occupando militarmente i territori palestinesi, rendendo impossibile, o limitando al massimo, l’entrata dei Palestinesi in territorio israeliano.
Nel 2002 riprendono i negoziati di pace, che culminano in un piano denominato Road Map, che prevede “una serie di tappe per giungere alla creazione, entro il 2005, di uno Stato palestinese indipendente nei territori occupati (senza però definirne i confini), in cambio dell’impegno palestinese di porre fine agli attacchi terroristici contro Israele” (PAPPE 2005: 321). La pace però non arriva e, infine, gli ebrei decidono di erigere un muro che li separi dai territori palestinesi e renda impossibile la penetrazione dei kamikaze.
Agli inizi del 2004 inizia il processo al “muro” da parte della Corte Internazionale dell’Aja, che però gli ebrei non riconoscono. Intanto muore Arafat e al suo posto s’insedia Abu Mazen (2004), il quale, essendo di tendenze moderate, lascia presagire un avvicinamento della pace. Un primo significativo passo avanti in tale direzione può essere considerato il ritiro dei coloni ebrei da Gaza (agosto 2005), che segna la fine dell’occupazione israeliana in quel territorio, ma ancora il cammino per la pace sembra lungo.
Alle elezioni del 25.1.2006, l’affermazione di Hamas, che conquista la maggioranza assoluta (76 seggi su 132, contro i 43 di Fatah), alimenta un senso di inquietudine non solo in Israele ma anche nel mondo, che adesso vede soffiare tempi di guerra. Hamas, infatti, è un movimento integralista, che non riconosce lo Stato di Israele e vuole la cessazione dell’occupazione delle loro terre, anche ricorrendo all’uso della forza. Al contrario, Fatah è un partito moderato, che riconosce Israele e vuole la pace. Intanto, colpito da un ictus cerebrale, esce di scena il primo ministro Sharon e al suo posto si insedia Ehud Olmert (maggio 2006).
Nel luglio 2006 prende inizio la guerra israelo-libanese, una guerra che Israele muove contro Hezbollah (Partito di Dio), colpevole di avere fatto prigionieri due soldati ebrei e di rappresentare una minaccia per lo Stato ebraico. Gli obiettivi d’Israele sono: liberare i soldati e disarmare Hezbollah, sradicarlo dal sud del Libano, dove è insediato, così da rendere sicuro il confine israelo-libanese. Alla data della cessazione dei bombardamenti (14.8.06) questi obiettivi non sono stati raggiunti: Hezbollah è ancora in piedi e i due soldati prigionieri non sono stati liberati. In cambio sono morti circa 1150 civili, quasi tutti libanesi, e 650 militari, 530 dei quali hezbollah, più oltre 4000 feriti e, inoltre, ci sono un milione di sfollati, in maggioranza libanesi, senza contare i danni materiali alle cose (edifici, infrastrutture, servizi), che sono ingenti.
La risoluzione n. 1701 dell’Onu arriva tardi e non scioglie i nodi della questione: la risposta eccessiva di Israele in rapporto alla provocazione subita non viene condannata, bensì giustificata secondo il principio di “autodifesa”, e si afferma il diritto d’Israele a riprendere le ostilità in caso di nuove provocazioni. Il messaggio è chiaro: Israele deve poter vivere in pace all’interno del proprio territorio e non deve essere fatto oggetto di minacce esterne. È come dire agli arabi che essi devono riconoscere lo stato d’Israele e lasciarlo in pace. Ma è proprio questo il motivo della loro guerra: Hezbollah e molti altri arabi sono sul piede di guerra da quasi un secolo perché non accettano di essere stati sfrattati dal loro territorio e di essere stati depredati della loro patria dalla politica sionista degli ebrei. A queste rivendicazioni mancano risposte, chiare ed eque, da parte dell’Onu. E qui sta il nodo irrisolto della questione.
Nel giugno 2007 le divergenze sulla politica estera da parte di Hamas e di Fatah portano sull’orlo della guerra civile nella Striscia di Gaza. Il più forte sul campo risulta essere ancora una volta Hamas, ma gli Usa rispondono con una politica tesa a potenziare Fatah e indebolire Hamas, una politica, dunque, contraria alla volontà degli elettori che, liberamente, avevano preferito Hamas. In questo caso, i principî della democrazia e del rispetto della sovranità popolare sono stati disattesi proprio dal quel paese, che si propone al mondo come il simbolo della democrazia stessa. Il fatto di dover rinunciare alla propria coerenza ideologica è certamente di un segno di debolezza e non depone a favore degli Usa.

17.1. La questione palestinese
Come andrà a finire la storia di questa terra martoriata che è la Palestina? Se nel mondo dominasse la giustizia, gli ebrei dovrebbero essere tenuti innanzitutto a riconoscere senza indugio ai palestinesi il diritto ad avere uno Stato e, in secondo luogo, a rispondere per il male che hanno fatto a quella popolazione, per esempio pagando un affitto per il territorio che occupano e risarcendo le famiglie delle vittime della loro azione di conquista. Se, invece, è vero che nel mondo domina la legge del più forte, allora non è difficile prevedere che, alla fine, prevarranno gli ebrei, i quali si affermeranno come la potenza egemone in Palestina e imporranno la loro superiorità militare ed economica alla popolazione araba indigena, che dovrà scegliere fra integrarsi oppure rassegnarsi a vivere come cittadini di secondo livello. È l’eterno destino del perdente, di chi viene soggiogato e sottomesso.
Rimarrebbe, in ogni caso, una storia unica nel suo genere, in grado di suscitare interrogativi profondi e di aprire nuovi scenari nel panorama internazionale. Il principale interrogativo è se il mondo dovrà continuare a reggersi su rapporti di forza oppure se c’è spazio per sperare di realizzare un sistema mondiale fondato su principî di giustizia. Se quello che conta è la forza, come si può porre fine al prevedibile, legittimo desiderio di ogni popolo di armarsi, almeno quel che basta a potersi difendere da ogni possibile minaccia esterna ed evitare il rischio di fare la fine dei palestinesi? Ma, se un popolo è dotato di armi così potenti da non dover temere di essere attaccato, chi può garantire che, prima o poi, esso userà le sue armi per evitare che un altro popolo gli stia alla pari? E come può essere soddisfatto il bisogno di sicurezza della gente in un mondo in cui alcuni paesi dispongono di armi di distruzione di massa, altri aspirano a possederle per non essere da meno, altri ancora sono troppo impegnati a soddisfare i bisogni primari per poter esprimere una volontà di potenza?
Se, invece, quello che conta è la giustizia, tutti questi arsenali di morte non avrebbero alcun senso, così come non avrebbe senso una storia come quella del sionismo. In un mondo giusto, gli ebrei avrebbero potuto vivere in pace in qualunque angolo della terra, nel pieno rispetto dei loro diritti, come si conviene nei confronti di qualsiasi persona e di qualsiasi minoranza. Se gli ebrei hanno avvertito il bisogno di avere uno Stato proprio, ciò è dovuto al fatto che sono stati calpestati nei loro diritti e sono stati fatti oggetto di persecuzione e di sterminio. Essi avevano (e hanno) tutte le ragioni di esigere di essere rispettati, ovunque nel mondo, ma non quello di conquistare questo diritto con la forza, negandolo ad un altro popolo.

17.2. La Promessa
Gli ebrei si sono dati un governo di tipo democratico che, paradossalmente, non è disposto a riconoscere la parità dei diritti a chi non rispetta la religione ebraica. In un certo senso l’Israele ebraico, nonostante la sua proclamazione di democraticità, rimane ancora uno Stato di tipo sacerdotale. Gli Ebrei di oggi pensano ancora alla Promessa? Probabilmente si, dal momento che la loro religione è fondata su di essa. Ma si aspettano ancora la rivincita sui loro nemici e il dominio sulla terra, oppure si accontentano di avere uno Stato al pari di tanti altri popoli? È difficile dirlo. Probabilmente oggi la maggioranza non interpreta più la Promessa nel modo tradizionale e si sentirebbe paga se potesse vivere pacificamente in uno Stato tutto proprio, ma non ci sarebbe da sorprendersi se qualcuno continuasse a sognare il dominio sul mondo. D’altra parte, che senso avrebbe la Promessa di Jahve, se poi gli Ebrei devono vivere al pari degli altri? E, svuotata della Promessa, che senso resterebbe alla religione ebraica?

17.3. Chi è ebreo?
Oggi la Palestina conta circa 6.300.000 di abitanti, l’80% dei quali ebrei, il 20% arabi e cristiani. Si tratta comunque di uno Stato anomalo. Esso, infatti, accoglie gruppi provenienti da ogni parte del mondo, divisi per storia e cultura, e accomunati solo sotto il profilo religioso. Gli ebrei d’Israele non costituiscono una razza, non sono un gruppo etnico, né una nazione, né un popolo; sono, piuttosto, i seguaci di una dottrina religiosa. Il loro dovrebbe essere, dunque, uno Stato confessionale, anche se, sulla carta, esso risulta essere una repubblica democratica e liberale.
Che cos’è, dunque, lo Stato d’Israele? Se è uno Stato religioso, allora dovrebbe accogliere tutti coloro che aderiscono alla sua religione e, di fatto, sarebbe l’unico Stato al mondo con queste caratteristiche. In questo caso, esso potrebbe costituire un precedente per la fondazione di altre analoghe realtà: uno Stato luterano, uno buddista, uno musulmano, e via dicendo. Se, invece, è uno Stato laico, perché esso apre le porte solo agli ebrei? Chi sono, in fondo, questi ebrei? Per Hitler è ebreo chi ha almeno un nonno ebreo. Secondo la Conferenza centrale dei rabbini americani, dev’essere considerato ebreo anche il figlio di una coppia mista (1983). Nessuno dubita che il figlio di entrambi i genitori ebrei sia ebreo. Ma l’essere ebreo è una questione genetica o culturale? Il figlio di una coppia di neri è sicuramente un nero, anche se non lo vuole. Ma il figlio di ebrei può dirsi ebreo, se non accetta la religione ebraica? E se un non-nato da ebrei fa propria la cultura ebraica, perché non può dirsi ebreo?

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