mercoledì 16 settembre 2009

06. Gli americani

Frenato dalla maggioranza repubblicana del Congresso dove riesce in parte il democratico William Clinton (1993-2001) si dedica prevalentemente alla politica internazionale. In politica interna, tra i principali obiettivi di Clinton c’è quello di arginare l’enorme deficit accumulato negli anni precedenti, anche grazie alla riduzione delle spese militari, ridurre il deficit annuo fino a raggiungere il pareggio di bilancio, e poiché egli non vuole aumentare le tasse ai ricchi, né ridurre le spese militari, non gli rimane che sacrificare la spesa sociale. Anche per Clinton lo Stato non deve assumersi la responsabilità di occuparsi delle persone incapaci di badare a se stesse, ma deve favorire i ricchi e gli interessi degli americano nel mondo, attraverso una politica di forza. Gli stessi diritti umani vengono al secondo posto rispetto al profitto economico, col risultato che l’uno per cento della nazione possiede il trenta per cento della ricchezza e costituisce una sorta di sfera sacra (ZINN 2007: 447-9). Il restante novantanove per cento è costituito dai comuni cittadini, che sono distribuiti in varie classi sociali, dai facoltosi proprietari e professionisti (la cosiddetta classe media) ai salariati, sottoccupati e disoccupati, che sono gli uni contro gli altri. Paga della propria condizione e soddisfatta del sistema politico vigente, la classe media disapprova sia un’eventuale politica sociale, sia eventuali rivendicazioni delle classi infime, che ritengono ingiuste e destabilizzanti. Alla fine, è proprio il consenso della classe media ad assicurare la stabilità del sistema politico e a sostenere la sfera sacra dell’establishment sociale. “Se cessano di obbedire, il sistema cade” (ZINN 2007: 461).
Dopo gli otto anni della presidenza Clinton, che trascorrono senza particolari sussulti, è G.W. Bush, figlio di George, a prevalere sul democratico Albert Gore e a diventare il 43° presidente degli Stati Uniti (gennaio 2001).

06.1. La dinastia Bush
I Bush si affermano, nell’arco di quattro generazioni, come una famiglia “composta quasi esclusivamente da imprenditori finanziari” (PHILLIPS 2004: 60), impegnati principalmente nel settore petrolifero, senza disdegnare, tuttavia, quello della produzione e del commercio di armi d’ogni tipo (ivi: 232) e, perfino, la partecipazione ad operazioni finanziarie clandestine e riciclaggio di denaro (ivi: 338).
Il capostipite può essere considerato Prescott Bush (1895-1972), un facoltoso finanziere che, grazie al matrimonio con la ricca ereditiera, Doroty Walker (1921), s’imparenta con una famiglia di rango superiore e rafforza la propria posizione economica. Decide quindi di entrare in politica e, dopo due tentativi infruttuosi, diventa senatore (1952). George Bush (n. 1924), uno dei cinque figli di Prescott, è determinato a seguire le orme del padre e, dopo avere operato in compagnie petrolifere, intraprende la carriera politica. Nominato ambasciatore ONU (1970), poi direttore della CIA (1976-80), quindi vice-presidente di Reagan (1981-88), viene eletto 41° presidente degli Stati Uniti (1989-92). Durante questi anni riesce “a far guadagnare ai fratelli e ai figli milioni di dollari” (KELLEY 2005: 351). Battuto da Bill Clinton, si ritira dalla politica attiva, pur continuando a sostenere quella del figlio George Walker (n. 1946). Dopo aver, in qualche modo, evitato il doveroso servizio militare in Vietnam e dopo essersi laureato in storia, G.W. Bush inizia un’attività imprenditoriale nel settore petrolifero, poi acquista la comproprietà della popolarissima squadra di baseball dei Texas Rangers (1989-94), e ciò gli vale l’elezione a governatore del Texas (1994). Candidato repubblicano alle presidenziali del 2000, consegue una risicata vittoria sul democratico Albert Gore, vicepresidente uscente.
Ciò che caratterizza entrambe le presidenze Bush è il perseguimento degli affari di famiglia attraverso una politica, che qualcuno definisce “capitalismo nepotistico” (PHILLIPS 2004: 166).

G.W. Bush si presenta con un programma conservatore, che prevede, sul piano interno, la riduzione delle tasse, il contenimento dello stato sociale, la privatizzazione della scuola, la sicurezza del paese e un maggior rigore della giustizia; a livello internazionale, il rilancio del progetto “scudo spaziale”, il disimpegno dal processo di pace in Palestina e il pieno sostegno alla causa di Israele. L’11 settembre dello stesso anno un evento eccezionale e drammatico scuote il mondo: l’organizzazione terroristica Al Qaeda, che fa capo allo sceicco saudita Osama Bin Laden, inferisce agli USA una ferita mortale mandando tre aerei di linea a schiantarsi contro le Torri Gemelle di New York e il Pentagono e causando circa tre mila vittime civili. L’attacco è di tale portata da far sentire gli americani in pericolo e indurli a ridefinire il presente e ripensare al futuro, in funzione del nuovo nemico, il terrorismo, e la risposta è duplice: una a breve termine, che consiste nell’aumento della spesa militare, che passa da 296 miliardi di dollari nel 2001 a 329 nel 2002 e 365 nel 2003 , una nel tempo medio-lungo, che consiste nel rilancio del progetto reaganiano dello scudo spaziale (DINUCCI 2003: 173). Il secondo paese per spesa militare è il Giappone, con 46,7 miliardi nel 2002, seguito da Gran Bretagna, Francia, Cina, Germania, Arabia Saudita, Italia, Iran, Corea del Sud, India, Russia, Turchia, Brasile, Israele. Ma tutti questi paesi, messi assieme, spendono meno degli USA!
Intanto Bush, non potendo tollerare che il terrorismo possa impunemente colpire i civili americani nel cuore stesso dell’America, elabora una ideologia anti-terroristica che, da un lato, rivendica implicitamente la superiorità assoluta della cultura occidentale, dall’altro condanna senza mezzi termini il terrorismo, bollandolo sul piano etico, dal momento che le sue azioni sono organizzate nella clandestinità e perpetrate ignominiosamente contro bersagli civili. Agli occhi di Bush e dei suoi alleati il terrorismo diventa il male assoluto e tutti gli Stati che lo alimentano, lo sostengono o non lo combattono, sono definiti Stati-canaglia, personificazione del male, che meritano di essere annientati per il bene del mondo. Da qui alla dichiarazione di guerra il passo è breve. Ma guerra a chi, dato che i terroristi non hanno uno Stato proprio? Guerra ai loro sostenitori. Si comincia a bombardare l’Afghanistan (2001), che è sotto il governo dei Talebani, considerati complici di Osama Bin Laden.
Nel 2002 Bush comincia a rilanciare l’idea di un efficiente sistema antimissile, che restituirebbe agli USA quel primato che essi hanno perso nel 1949. Grazie a questo “scudo”, gli americani potrebbero lanciare i loro missili nucleari contro chiunque senza il rischio di essere colpiti da alcuno. Come gestirebbero questo eventuale nuovo monopolio della forza non è dato saperlo, ma non è detto che, anche questa volta, essi lascerebbero gli altri paesi liberi di colmare il gap. Per il momento il progetto “scudo spaziale” avanza in segreto e a passi lenti, e non sembra un obiettivo a tempi brevi. Continua invece la lotta senza quartiere contro l’impero del male. Questa volta nel mirino è l’Iraq di Saddam Hussein, che viene accusato dagli americani di regime autoritario e violento e sospettato di possedere armi di distruzione di massa, oltre che di complicità con Al Qaeda. Bush non si stanca di ripetere: “dobbiamo attaccare perché l’Iraq e al Qaeda sono legati e Saddam ha arsenali di armi di distruzioni di massa che potrebbe mettere a disposizione delle organizzazioni terroristiche” (PHILLIPS 2004: 389). Se il dittatore iracheno non lascia il potere o non permette la verifica dei suoi armamenti da parte di ispettori ONU –insiste Bush– verrà cacciato con la forza e i suoi arsenali distrutti.
Nonostante che Saddam non si opponga all’ingresso degli ispettori e nonostante l’esito negativo delle ispezioni e il parere contrario dell’ONU, Bush continua a credere che le armi siano semplicemente nascoste e, con la partecipazione degli inglesi, dà inizio alla guerra contro l’Iraq (19.3.2003). Gli scopi dichiarati della guerra sono la sostituzione di un regime dittatoriale con uno democratico, lo smantellamento delle armi di distruzione di massa e un duro colpo alla rete terroristica di Bin Laden. La guerra si conclude in poco più di un mese con la vittoria americana e la fuga di Saddam, che verrà poi catturato, processato e giustiziato. Le armi di distruzione di massa non possono essere smantellate semplicemente perché non ci sono, né si trovano prove a favore di un appoggio di Saddam al terrorismo di Al Quaeda. Una guerra inutile, dunque? Molti ne sono convinti, ma Bush continua a difendere il proprio operato: indica come il migliore possibile per l’America e invita gli americani a confermargli la propria fiducia.
Bush pensa ormai alle prossime elezioni ed è sicuro che il popolo americano non abbandonerà il proprio presidente, mentre è impegnato a difendere l’America dalla minaccia del terrorismo. I risultati elettorali del 2004 gli danno la vittoria e potrà governare l’America ancora per quattro anni. Intanto, nel gennaio 2005, gli iracheni sono chiamati alle urne per eleggere un governo rappresentativo, mentre il paese è ancora occupato dagli americani e dai loro alleati, e in preda al disordine e alla violenza. L’evento viene, comunque, raccontato dai mass media come una vittoria della democrazia.
Le due guerre non hanno arrestato il terrorismo, che continua a colpire duramente: a Madrid vengono presi di mira simultaneamente quattro treni di pendolari, provocando circa 200 morti (11.3.2004), a Londra esplodono bombe nella metropolitana, che causano una cinquantina di morti e centinaia di feriti (7.7.2005), a Sharm el Sheikh attacchi esplosivi contro hotel e bazar determinano un centinaio di morti (23.7.05). La già poco felice posizione di Bush è aggravata dal cosiddetto scandalo Cia-gate (ottobre 2005), ovverosia il sospetto che la notizia circa la disponibilità di armi di distruzioni di massa e la complicità con Al Qaeda da parte di Saddam sia stata solo un pretesto architettato al fine di giustificare la guerra contro l’Iraq, e dalla scoperta che gli americani abbiano usato fosforo bianco (arma proibita) nella battaglia di Falluja contro i terroristi iracheni (2004).
A fronte dei cospicui stanziamenti economici finalizzati a sostenere azioni militari pretestuose ed evitabili, non si reperiscono le risorse necessarie per un’adeguata politica di welfare. L’esempio più lampante, che ha scosso gli Stati Uniti, è rappresentato dal veto di Bush ad una legge approvata con voto bipartisan, che prevede l’erogazione di fondi per l’assistenza sanitaria ai bambini americani a basso reddito (ottobre 2007). È davvero sorprendente che la prima Potenza economica e militare al mondo non sia in grado di garantire la salute dei suoi cittadini. Però così è, e questo va interpretato come un segno di debolezza. Come dire: la forza militare e l’aspetto esteriore di grandezza, nascondono una realtà interna ben più modesta e dimessa, che è fatta di sofferenze e di rinunce per molti cittadini americani.

06.2. Terrorismo
Secondo Antonio Cassese, “in base al diritto internazionale, è terrorista chiunque (1) commetta un’azione criminosa (omicidio, strage, dirottamento di aerei, sequestro di persone, attentato dinamitardo contro edifici e così via) contro civili (o anche militari, sempreché non impegnati in azioni belliche); (2) allo scopo di coartare un governo, un’Organizzazione internazionale o un’entità non statale (ad esempio, una società multinazionale) diffondendo il terrore nella popolazione civile o con altre azioni; (3) per una motivazione politica o ideologica” (CASSESE 2005: 195-6). Con parole nostre, definiamo atto terroristico un’azione violenta, ad elevata carica emotiva, perpetrata a danno di strutture altamente simboliche o persone ignare e non direttamente partecipanti ad alcuna forma di lotta armata, e condotta in modo lucido e pianificato, talvolta preannunciata e sempre rivendicata, da parte di gruppi organizzati , con l’intento di seminare terrore all’interno di una popolazione, sì da indebolire il suo sistema politico e indurla a piegarsi alla volontà dell’aggressore, quale che essa sia. In realtà, esiste anche un T. individuale, come quello di Unabomber, che opera in Italia a partire dagli anni Ottanta, ma che, tuttavia, non riveste alcun significato politico, dal momento che l’azione di un individuo isolato merita di essere considerata come sintomo di malattia mentale.
Si possono distinguere due principali forme di T. politico: quella perpetrata dai governi legittimi contro nemici politici o minoranze ritenuti, in qualche modo, meritevoli di essere combattuti e/o elimitati, che possiamo definire T. di Stato; e quella attuata da gruppi minoritari nei confronti di uno Stato ritenuto oppressivo, che possiamo chiamare T. propriamente detto. Il T. di Stato è abituale negli avvicendamenti al potere politico, che fanno seguito a lotte armate, laddove il gruppo vincente si preoccupa per prima cosa di eliminare i propri nemici e di rendere stabile la propria posizione di comando. Ne sono esempi la dittatura giacobina, il totalitarismo staliniano e il genocidio dei cambogiani da parte dei khmer rossi di Pol Pot. La seconda forma di T. è quella messa in atto da parte di gruppi minoritari che mal sopportano di essere condizionati da una potenza superiore o non si rassegnano a rimanere esclusi dal potere politico. Questi gruppi possono appartenere allo stesso Stato (com’è il caso dei marxisti russi sotto il regime zarista, delle Brigate Rosse in Italia, dell’Esercito Rosso in Giappone, dei Tupamaros in Uruguay, di Sendero Luminoso in Perù, dei movimenti nazionalisti o indipendentisti irlandesi, israeliani, algerini, sudtirolesi, baschi) o a Stati diversi (com’è il caso dei ceceni, che aspirano all’indipendenza dalla Russia, dei palestinesi, che non vogliono lasciare le loro terre agli ebrei, dell’Islam, che non vuole cedere ai valori occidentali).
In questo secondo caso, la disparità delle forze sul campo è tale che un eventuale scontro in campo aperto non consentirebbe alcuna probabilità di successo per il gruppo minoritario, il quale, pertanto, si vede costretto a ripiegare a forme non convenzionali di lotta, che chiamiamo T. I ceceni, i palestinesi e i musulmani, non avendo alcuna ragionevole speranza di affermazione contro le forze abissalmente preponderanti di russi, israeliani e americani, e, tuttavia, volendo difendere la propria indipendenza o imporre i propri interessi, attuano azioni violente, subdole e infami, puntando su bersagli abbordabili, ma scelti con cura, allo scopo di ottenere il massimo danno possibile, anche sul piano psicologico, con il minimo sforzo. Un mercato nell’ora di punta, una chiesa, un teatro o uno stadio affollati, un treno o una metropolitana, un luogo turistico molto frequentato, un grattacielo con migliaia di residenti, costituiscono gli obiettivi preferiti dai terroristi. Un unico attacco, ben coordinato e improvviso, condotto anche da una sola persona, può provocare una strage con decine di morti e centinaia di feriti, seminare il panico nella popolazione, indurre lo Stato ad elevare il livello di allerta e ad incrementare i controlli e le misure di sicurezza, anche se ciò non sempre è sufficiente per rassicurare la gente.
Talvolta, il livello emotivo che si raggiunge fra la popolazione di una potente nazione, che sia stata aggredita e ferita nel suo orgoglio dall’attacco suicida di pochi miserabili, può essere tale da indurla a mobilitare le forze armate e a scatenare una guerra, ma c’è un problema: il nemico terrorista non è ben visibile e non risiede in un luogo preciso. Il più imponente apparato militare, gli ordigni bellici più micidiali nulla possono contro un nemico che si nasconde, che si infiltra nella popolazione civile e nei luoghi più disparati, che può colpire in qualsiasi momento e nel modo più imprevedibile. Il risultato è che la grande potenza deve dirottare consistenti capitali di denaro per sostenere una guerra che non riesce a sconfiggere il T. o, comunque, non può mai essere sicura di averlo debellato definitivamente. Col passare del tempo la popolazione comincia ad avvertire un senso di stanchezza e di frustrazione, e mal sopporta il sacrificio economico necessario per sostenere uno stato di guerra che non sembra essere in grado di risolvere il problema in modo rapido e radicale. Al clima di paura e di insicurezza si aggiunge un senso di impotenza e disagio, che si risolve, infine, nel crollo della fiducia nelle istituzioni da parte dei cittadini. In altri termini, si determinano le condizioni per l’indebolimento dello Stato e per la richiesta di un cambiamento politico da parte delle masse, che in fondo è quello che vogliono i terroristi. E poi?
Se è difficile per gli Stati liberarsi della piaga terroristica, non è facile per i terroristi raggiungere i loro obiettivi, se non altro a causa della netta inferiorità delle loro forze. Ma cosa succederebbe se ciò accadesse? Cosa succederebbe se delle Brigate redivive, Rosse o Bianche, riuscissero a far cadere il governo italiano o dei terroristi islamici abbattessero la potenza americana? Si accontenterebbero di essersi liberati dal nemico che li opprimeva, o cercherebbero di sostituirsi ad esso nella posizione di comando? Potrebbero fare entrambe le cose insieme o in successione di tempo: prima abbattere il sistema, poi sostituirlo. Tuttavia, nel caso in cui delle Brigate di qualsivoglia colore riuscissero a conquistare con la forza il potere politico in un qualsiasi paese, la storia non potrebbe che ripetersi. La loro azione, infatti, non sarebbe molto diversa dalla conquista armata di un paese da parte di un altro paese, o del rovesciamento di una dinastia da parte di un’altra dinastia. Come ci insegna la storia, dopo che un gruppo ha conquistato il potere con la forza, di norma si adopera per consolidare la propria posizione e renderla stabile, ma è improbabile che ciò avvenga col consenso di tutti, e così si formeranno altri gruppi minoritari, portatori di valori diversi, delle Brigate Nere o Gialle disposte a ricorrere al terrorismo allo scopo di abbattere e sostituire il potere costituito. La storia si ripeterebbe, e sarebbe la solita storia, quella che si basa su rapporti di forza, dove ha ragione chi vince e chi perde ha torto e dove non c’è posto per la giustizia.

Il 4 novembre 2008 l’afroamericano Barack Obama, democratico di 47 anni, viene eletto alla Casa Bianca con una larga maggioranza di consensi, imponendosi sul repubblicano McCain e facendo registrare quello che viene registrato come un evento epocale. Sino ad un anno prima, infatti, sembrava inimmaginabile che un uomo di colore diventasse presidente degli Stati Uniti. Evidentemente il bilancio della politica Bush è sembrato agli americani così fallimentare da indurli a riporre le loro speranze sull’uomo che meglio incarnava il desiderio di cambiamento. Ora, benché possa contare su una discreta maggioranza democratica in Camera e Senato, il neo-presidente si viene a trovare di fronte ad un compito tra i più difficili: un paese in piena recessione economica, con una povertà e un debito pubblico in aumento, e un quadro internazionale delicato e fluido, specie in Iraq. Le aspettative che il mondo intero ripone su di lui sono molto alte e ciò contribuisce a rendere il suo compito ancora più arduo.
Oggi, secondo Parag Khanna, gli Usa stanno cominciando a perdere il controllo del Sudamerica, che, grazie all’accorciamento delle distanze dovuto alla globalizzazione, sta intensificando i propri affari con la Cina (2009: 185). Non fa più presa nemmeno la causa della democrazia, che finora è stata “la maschera preferita dell’egemonia imperiale” statunitense (Khanna 2009: 183). Negli Usa, “la popolazione povera del paese tocca i quaranta milioni” (Khanna 2009: 430) e aumenta la distanza fra ricchi e poveri. “L’America è sempre meno la nazione della middle-class e sempre più quella combinazione di estremi tipica del Secondo Mondo” (Khanna 2009: 430). E in un paese con queste caratteristiche la democrazia soffre.

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