mercoledì 16 settembre 2009

05. Un mondo duale

La crisi del modello comunista segna una cesura e ben ha fatto Eric J. Hobsbawm a fissare nel 1991 la fine del secolo XX e ad indicare quella data come l’inizio di una nuova era, che presenta profondi cambiamenti rispetto al passato e nuove sfide. Il vecchio dualismo Est-Ovest (Capitalismo/Socialismo, Denaro/Solidarietà) cede il passo al nuovo dualismo Nord/Sud (Paesi ricchi/Paesi poveri). Di fatto, il capitalismo rimane l’unica forza in campo e sembra ormai il dominatore incontrastato. Il Patto di Varsavia non sopravvive al disfacimento dell’URSS e, contemporaneamente, la NATO perde la sua funzione di scudo antisovietico e assume un nuovo ruolo, più generale, che ha a che fare con la difesa della pace nel mondo. Nella nuova veste essa può accogliere fra i suoi membri anche i paesi dell’ex Patto di Varsavia e intervenire nei Balcani (1994 e 1999) e in Afghanistan (2001). Nel maggio 2002 NATO e Russia firmano un accordo, in cui si impegnano a lottare congiuntamente contro il terrorismo, e ad adoperarsi nella gestione di eventuali crisi internazionali e per impedire la proliferazione della armi di distruzione di massa. Siamo veramente entrati in una nuova era, dove ora si confrontano due mondi: il Primo mondo, quello dei ricchi, a nord, il Secondo mondo, quello dei poveri, a sud.
Nel Primo Mondo la maggioranza dei lavoratori è impiegata nei settori secondario e terziario, che sono quelli della produzione industriale e dei servizi, ossia in ambiti non strettamente legati alla mera sopravvivenza, mentre i beni primari, che provengono dall’agricoltura e dall’allevamento sono gestiti con mentalità imprenditoriale. I beni alimentari abbondano e vengono presentati al pubblico in eleganti e pratiche confezioni, insieme a tanti altri prodotti industriali, ordinatamente disposti in apposite scaffalature, ben illuminate, all’interno di grandi centri commerciali, dove, quotidianamente, affluiscono i consumatori, richiamati dai loro bisogni certo, ma anche da una martellante pubblicità. La necessità vitale dell’industria, come quella del terziario, è di produrre, vendere e crescere. Al cittadino si chiede, pertanto, di abbandonare la sua vecchia mentalità di puntare al necessario per una decorosa sussistenza e lo si invita ad ampliare il suo orizzonte e a pretendere di più, a spendere tutto il suo denaro, e perfino ad indebitarsi, affinché l’industria possa vendere tutti i suoi prodotti e continuare a crescere, offrendo così nuovi posti di lavoro e incrementando la ricchezza del paese.
Il mondo del capitalismo è basato sull’idea di sviluppo illimitato e sull’incessante creazione di nuovi bisogni, dove quello che conta sopra ogni altra cosa è il profitto; ha successo chi guadagna di più, e guadagna di più chi vende di più. Ecco allora che la merce viene reclamizzata: bisogna vendere il più possibile, e sempre di più. Lo scopo della pubblicità non è quello di fornire sul singolo prodotto informazioni tecniche chiare ed obiettive, tese a consentirne un acquisto oculato, ma quello di suscitare nel cittadino una spinta emotiva e irrazionale, che lo induca al consumo fine a se stesso. Per il capitalismo è bene ciò che incrementa le vendite e favorisce gli scambi commerciali (mezzi di trasporto sempre più efficienti, internet, new economy), è male ciò che vi si oppone, compresi gli appelli a rispettare gli equilibri ecologici del pianeta.
La ricchezza è divenuta più importante di ogni altra cosa, perché coi soldi si può comprare non solo cibo e servizi, ma anche prestigio e potere, e ciò vale a livello tanto individuale che aziendale e di Stato. Così, il cittadino più ricco può assicurarsi servizi migliori e una migliore tutela giudiziaria, le maggiori aziende commerciali possono non solo esercitare un qualche controllo del potere politico e legislativo, ma anche condizionare la cultura e i costumi popolari, lo Stato più forte prevale sul più debole e il Primo mondo domina sul Secondo. Ma finché rimane operativa la legge del più forte, non si vede quali possibilità abbia la parte povera di far valere le proprie ragioni su quella ricca, la piccola impresa locale di competere con la grande azienda multinazionale o i paesi più arretrati di mettersi al passo dei più avanzati. Nel 1995 è stata istituita l’Organizzazione mondiale per il commercio (WTO). Lo scopo dichiarato era quello di garantire il libero mercato e promuovere la globalizzazione mondiale dell’economia, ma non quello di rimuovere i fattori di handicap e consentire una competizioni ad armi pari. Il risultato è stato che i più forti si arricchiscono sempre più, i più deboli arrancano.
Benché incisiva, l’immagine di un Nord ricco e di un Sud povero, oltre ad essere semplicistica, non è nemmeno del tutto esatta. Essa, infatti, non tiene conto che anche il Nord è afflitto dal fenomeno della povertà e della disoccupazione e che nel Sud non tutti sono poveri. Forse sarebbe meglio parlare di individui (e/o gruppi) ricchi e poveri, indipendentemente dalla sede dove essi risiedono, e costruire l’immagine di un pianeta diviso in due trasversalmente, un «Mondo duale», dove convivono, fianco a fianco, un piccolo numero di ricchi e sterminate masse di poveri, anche se si tratta di forme diverse di povertà. Nel Primo mondo la povertà non consiste tanto nella carenza dei mezzi di sussistenza, quanto nella condizione di chi, non avendo alcun potere contrattuale, è costretto ad accettare qualsiasi offerta di salario per poter sopravvivere, non è libero di esprimere il suo pensiero e deve subire ogni genere di umiliazioni per la paura di perdere quel poco che ha. Nel mondo capitalistico, il povero è colui che non può permettersi un’istruzione, che non ha la possibilità di coltivare il suo spirito, che non ha coscienza dei suoi diritti sociali e politici, o non è in grado di esercitarli. È il nuovo schiavo.
Il principale limite del capitalismo è la sua carenza di umanità, il suo disinteresse per i principî etici, la sua mancanza di valori spirituali profondi, la sua incapacità di mettere al centro del mondo l’uomo individuale coi suoi bisogni. Il capitalismo genera un clima altamente competitivo e spietato, che favorisce il gruppo più intraprendente e senza scrupoli, astuto e fortunato. Nello stesso tempo, suscita desideri illimitati e quindi infelicità, riduce la persona umana a semplice consumatore di beni materiali, si ispira alla legge del più forte e produce squilibri nelle società. Al di là di un apparente perbenismo e della presenza di un diritto garantista e uguale per tutti, i paesi capitalisti tollerano che molti loro cittadini abbiano a soffrire la carenza dei beni di prima necessità e dei servizi essenziali, che sono costretti a diventare essi stessi merce, corpi da prostituire, organi da vendere, uteri da affittare, bambini da manipolare e sfruttare. Nei confronti di questo Primo mondo l’Islam non prova attrazione e si tiene a debita distanza.
Il vero Secondo mondo è l’Islam. Non è un mondo propriamente povero, grazie al petrolio, ma è restio a farsi permeare dallo spirito capitalistico, che ritiene essere incompatibile con i valori della propria tradizione e con i princìpi espressi nel Corano. È un mondo che dispone già della bomba atomica (Pakistan e India) o che intende dotarsene (Iran) o che è in grado di costruirla (altri paesi), ma, soprattutto, è un mondo in cui singoli personaggi, particolarmente ricchi, possono finanziare un’organizzazione paramilitare finalizzata a difendere i valori e gli interessi dell’Islam dal pericolo occidentale, se non addirittura tentare di imporli. È il caso dello sceicco Osama Bin Laden e della sua rete terroristica, Al Qaeda. Il rischio che si profila è quello di uno scontro fra civiltà, che vede opposti il più forte Occidente cristiano al più debole, ma non arrendevole, mondo islamico. Il primo vuole esportare il suo modello capitalistico in tutto il pianeta, il secondo oppone resistenza al rischio di essere fagocitato e sviluppa un irriducibile fanatismo religioso che, unito ad una buona disponibilità di risorse e di armi, lo rende capace di organizzare azioni terroristiche a danno dei paesi occidentali, da molti considerati corrotti e moralmente degradati.
Se è vero che il terrorismo non può avanzare una propria candidatura al dominio del mondo, e sarebbe esecrabile che riuscisse in una simile impresa, è dubbio che ci riusciranno gli americani. Il modello che loro propongono sembra adatto solo per un impero, che dev’essere tenuto in piedi con la forza e dove un solo paese impone la sua egemonia sugli altri. È un modello che molti considerano ingiusto e, in quanto tale, indesiderabile. Forse è anche per questo che Eric J. Hobsbawm considera “scarse” le possibilità di successo a lungo termine di un impero mondiale americano (2002: 460). D’altra parte, se gli Stati Uniti decidessero di cambiare la loro politica e volessero elevare al proprio livello tutti gli altri popoli della terra, ne risulterebbe una situazione insostenibile, perché il pianeta non dispone di una quantità di risorse tali da consentire a sei miliardi di uomini di vivere secondo lo standard americano, né è in grado di smaltire la stratosferica mole di prodotti di rifiuto che la invaderebbe e che finirebbe per soffocarla.
Nel 2005, mentre un inarrestabile flusso emigratorio, una specie di fiume umano, avanza dal sud del mondo e si dirige a nord, alla ricerca di una vita migliore, alcuni importanti centri di potere, come Russia, Europa, Cina e Giappone, s’interrogano sul ruolo che essi sono chiamati a svolgere nel pianeta, se cioè devono limitarsi a fare da comprimari agli Stati Uniti o se devono contribuire a creare un mondo multipolare, in sostituzione di quello monopolare, che ha iniziato ad esistere dopo la fine del comunismo. Per il momento, la Russia deve ancora risolvere la minaccia di disgregazione costituita dai nazionalismi interni, il Giappone preferisce tenersi lontano dalla politica internazionale, l’Unione Europea stenta a darsi un assetto stabile e non ha ancora un forte potere centrale, la Cina è tutta presa dal proprio sviluppo economico e trascura l’eventuale ruolo trainante che potrebbe svolgere nel mondo. Forse queste grandi potenze sperano di poter emulare gli Stati Uniti ma, come abbiamo osservato sopra, una simile evenienza è da ritenere catastrofica.
In conclusione, gli equilibri politici che andranno a caratterizzate il XXI secolo devono essere ancora disegnati. Non sappiamo in che direzione procederanno i popoli nei prossimi decenni, ma certo è da augurarsi che essi vorranno migliorare il mondo in cui vivono, soprattutto trovando valide risposte alla sete di giustizia che arde nei cuori di molti uomini. “È ancora necessario denunciare e combattere l’ingiustizia sociale. Il mondo non migliorerà certo da solo” (HOBSBAUM 2002: 460).

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