mercoledì 16 settembre 2009

03. L’economia

La telematica trova applicazione anche in campo commerciale e finanziario, dove all’utente è offerta la facoltà di confrontare i prezzi di un prodotto, fare acquisti, seguire l’andamento della borsa o investire i propri risparmi nel mercato azionario, alimentando la creazione di un nuovo clima culturale, che prende il nome di new economy e di globalizzazione. Il mercato mondiale si apre e bisogna competervi senza ombrelli protettivi. Per i paesi, dove il costo della manodopera è più basso, ciò costituisce un’occasione per incrementare l’occupazione e avviare un processo di crescita economica, mentre i paesi più ricchi avvertono le conseguenze della concorrenza a basso costo, specie se non riescono a ridurre anch’essi il costo del lavoro oppure ad elevare lo standard qualitativo dei loro prodotti.
Se, da un lato, l’economia capitalistica si rivela capace di produrre occupazione e ricchezza, dall’altra non sembra in grado di distribuire equamente la ricchezza che produce, la quale tende a concentrarsi nelle mani di pochi, a creare cartelli e monopoli. “Ogni capitalista sogna di essere il monopolista nel suo settore di attività: senza concorrenti, farebbe il massimo di profitti” (RAMPINI 2000: 119-20). Si tratta insomma di un sistema che incrementa le disuguaglianze sociali e produce ingiustizia. Il denaro non si limita a creare ricchezza: la sposta. “È da quando ha preso piede l’economia monetaria –scrive Massimo Fini– che le disuguaglianze non hanno fatto che aumentare” (1998: 257). “La ricchezza aumenta, la popolazione impoverisce. C’è qualcosa che non quadra” (FINI 1998: 251). “La disparità distributiva è enorme: il 20% della popolazione concentrata nei paesi ricchi dispone oggi dell’87% del reddito. Ne discende, ovviamente, che l’80% della popolazione sopravvive col restante 13% del reddito” (LANZA 1997: 41). Non solo il capitalismo genera ingiustizia: esso sembra anche difficilmente sostenibile nel lungo periodo, sia perché è eccessivamente vorace di risorse, che sono limitate, sia perché produce un inquinamento, che il pianeta non riesce a smaltire. Vedremo se l’uomo sarà capace di trovare una soluzione a queste sfide.
Oggi, la semplice constatazione che molte teorie contrastanti si contendono il campo, nessuna di esse essendo in grado di rendere ragione della complessa realtà dei fatti che concorrono a strutturare la sfera economica a livello mondiale, dev’essere ritenuta un segno inequivocabile che non esistono leggi assolute in economia. Nemmeno l’informatizzazione dei dati, l’impiego di denaro elettronico, la diffusione di Internet e della new economy hanno reso possibile la creazione di un mercato mondiale paritetico. Il principale ostacolo è legato al fatto che i vari paesi sono tra loro in varia misura interdipendenti, viaggiano a velocità molto differenti e quelli più avanzati appaiono indisponibili ad aiutare quelli in difficoltà. Le esigenze e le potenzialità di ciascun paese sono troppo diverse da quelle di ciascun altro per sperare di poter realizzare un libero mercato, regolato dalla libera domanda e dalla libera offerta. Un’economica libera potrebbe trovare attuazione solo se nel mondo regnasse un clima di pace e di stabilità, se le condizioni sociali e culturali dei vari paesi fossero simili, se a ciascun individuo fosse effettivamente riconosciuto il suo diritto ad un’esistenza dignitosa e se il senso della giustizia prevalesse sul perseguimento di interessi particolari. Ma così non è, e allora è giocoforza che l’economia è dipendente dai rapporti di forza fra le aziende e dalle politiche dei governi: il pesce più grosso mangia quello più piccolo.
Oggi nel mondo 1200 milioni di persone vivono in uno stato di carenza cronica dei mezzi necessari per la sussistenza e una gran parte di esse muore in giovane età per fame o per malattia. Non basta una disponibilità sufficiente di risorse per eliminare la povertà: è anche necessario che le risorse siano equamente distribuite e, talvolta, neppure questo si rivela sufficiente. Accade, infatti, che la sorte favorisca alcuni gruppi e si accanisca contro altri, sì da rendere necessario un adeguato atteggiamento solidale dei primi nei confronti dei secondi, che oggi manca. Oggi l’aiuto che i paesi ricchi sono disposti ad offrire a quelli poveri non solo è insufficiente, ma tende anche a diminuire: dal 1990 al 2000 esso è calato dallo 0,35% allo 0,22% del PIL. Vano sarebbe l’eventuale tentativo, da parte dei paesi poveri, di modificare gli equilibri internazionali con la forza, a causa della netta inferiorità dei loro armamenti, e non si vede come possa cambiare la situazione. “Utopico chiedere ai popoli ricchi di mettere a repentaglio i privilegi che si sono accaparrati. Chiedere loro il disarmo e una politica che consenta ai popoli poveri di diventare forti è come chiedere che i ricchi diano ai poveri mezzi per disfarsi dei ricchi” (SEVERINO 1997: 135). La new economy, da sola, non basta a rendere il mondo migliore.

03.1. L’etica del denaro
Ai tempi antichi, la libera iniziativa individuale era ridotta al minimo e gli scambi commerciali, per lo più realizzati in forma di baratto, erano limitati alle corti dei re e ai palazzi dei grandi signori. La moneta e il mercato facevano la loro comparsa, insieme alla figura del mercante, intorno al VII-VI secolo, ma il loro spazio era limitato, anche perché la cultura dominante era favorevole al lavoro produttivo, nelle campagne e nelle industrie, ma contraria alle attività di tipo finanziario. Nell’antica Grecia, per esempio, il mercante era socialmente screditato e disprezzato da tutti. Scomparso dopo la caduta dell’Impero romano, il denaro ricompariva in Europa, dopo circa mille anni di letargo, insieme al rifiorire delle città e alla parziale rivalutazione della figura del mercante. La banconota nasceva in Inghilterra nel 1694, e da qui si diffondeva negli altri paesi.
Fino alla Rivoluzione industriale, l’uso del denaro ha occupato un posto minoritario rispetto allo scambio naturale e all’economia di tipo comunitario e collettivista, ma, a partire da quel momento, ha fatto registrare una crescita di ruolo impressionante, insieme alla rivalutazione della figura del mercante, che ora si chiama imprenditore. L’imprenditore risparmia, investe, calcola e pianifica; il denaro rappresenta lo scopo della sua vita; l’economia diventa “monetaria” e si diffondono le banche. I grandi proprietari terrieri recintano le loro terre e per tanti contadini non rimane altro che andare a lavorare nelle fabbriche, dove vendono il loro lavoro in cambio di un salario (lavoro-merce): da persone autosufficienti diventano consumatori. L’industria produce una grande quantità di beni e crea nuovi bisogni. Per tutto ci vuole denaro, ma, dal momento che il salario di un capofamiglia generalmente non è sufficiente a soddisfare i bisogni del nucleo familiare, ecco che si mandano a lavorare anche i figli, già a partire dai 7 anni. Non tutti però riescono a trovare una sistemazione nelle fabbriche e iniziano i fenomeni, prima sconosciuti, di disoccupazione e di povertà di massa, e si crea una nuova scala sociale: all’apice, insieme al vecchio nobile, si colloca l’imprenditore, la cui possibilità di profitto è teoricamente illimitata; all’ultimo scalino il disoccupato, che è costretto a vivere di espedienti, se non di atti criminosi.
Weber ritiene che la nuova mentalità sia stata favorita dalla religione calvinista, che vede nella fortuna materiale un segno della benevolenza divina. Secondo la stessa logica, il povero dev’essere portatore di qualche colpa di fronte a Dio e quindi merita la sua condizione. Se la ricchezza è grazia di Dio, più ne hai e meglio è. Ma anche se la religione non c’entrasse un bel niente con lo spirito capitalistico, la realtà non cambierebbe e la sete di guadagno rimarrebbe inestinguibile. “Il denaro non offre altro metro di giudizio che la quantità” (FINI 1998: 233). Così il ricco non è mai pago e continua ad accumulare, senza limiti. Qualunque cosa abbia, egli guarda sempre più lontano e, infine, al mondo intero. Questo è il senso della cosiddetta globalizzazione economica: “un unico mercato mondiale regolato secondo le logiche e i metodi del denaro” (FINI 1998: 176). Chi non si allinea è perduto. Che sia stato il calvinismo, o meno, il fatto è che, intorno alla metà dell’Ottocento, inizia l’era del capitalismo moderno, nella quale il denaro è tutto: “col denaro si può comprare tutto, tutto può essere ridotto a merce” (FINI 1998: 31-2). “Tutto ha un prezzo, tutto è monetizzabile, tutto è denaro” (FINI 1998: 81). “Da utile mezzo è diventato fine, da servo si è fatto padrone, crediamo di maneggiarlo e invece ci manipola, crediamo di usarlo e invece ci usa, crediamo di muoverlo e invece ci fa muovere, anzi trottare, crediamo di possederlo e invece ci possiede” (FINI 1998: 12). Secondo Saint-Simon, “Il denaro è per il corpo politico quello che il sangue è per il corpo umano. Ogni parte in cui il sangue cessa di circolare langue e non tarda a morire” (tratto da MATTELART 1998: 101).
Se riconsideriamo la storia del denaro, possiamo notare che essa è passata attraverso fasi ben distinte. Inizialmente il denaro era costituito da un certo bene, per esempio dalla pecora, e tutti gli altri beni vengono valutati in numero di pecore (un sacco di grano vale 1 pecora, un carro 10 pecore, una casa 100 pecore, e via dicendo). In una seconda fase si coniano monete in metallo prezioso, oro e argento, cui si attribuisce un valore intrinseco. In una terza fase si stampano banconote, prive di valore proprio. In una quarta fase il denaro diventa elettronico, si limita cioè a semplici bit che transitano a un computer all’altro. “Non si scambia più bene contro bene, merce contro merce, ad esempio grano contro bovini, ma il bene viene trasformato in denaro, il mezzo di scambio comunemente accettato che può essere usato in altri mercati per l’acquisto di altri beni” (NORTH 1998: 8).
Oggi l’operatore finanziario gestisce il denaro che investitori ignoti gli hanno affidato per farlo fruttare. Il denaro elettronico si può spostare, dare in prestito, investire, impiegarlo in speculazioni finanziarie di ampia portata e in complessi giri di corruzione. Il mancato rapporto personale si traduce in un allentamento del codice morale: quello che conta è la resa economica, non importa come. I grandi finanzieri si muovono in un mondo dove la mancanza di scrupoli è la regola, e di ciò non si ritengono colpevoli, non avvertono sensi di colpa. Perfino la giustizia ha dovuto subire le conseguenze del profondo cambiamento di cui è stato fatto oggetto la sfera morale. Oggi per lo più viene condannato il piccolo criminale, chi non ha abbastanza soldi per difendersi. Facilmente il giudice stabilisce che egli è un ladro, e così lo vede la gente. Ma, per chi traffica denaro ad alto livello, non solo la macchina della giustizia si muove con lentezza, ma anche la gente comune tende ad applicare un’etica benevola e indulgente. Insomma, “se rubi 100 mila lire sei inequivocabilmente un ladro, ma se rubi qualche decina di miliardi, come è provato dalla cronaca odierna, sei un grande imprenditore o un abile e funambolico finanziere” (FINI 1998: 220). La gente si inchina di fronte ai soldi, non importa come siano stati guadagnati, e il ricco è fatto oggetto di grande rispetto e gode di un’elevata considerazione sociale, a meno che non sia tanto sprovveduto o sfortunato da farsi scoprire e condannare.

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