mercoledì 16 settembre 2009

22. Prospettive per il terzo millennio

La storia del XX secolo è lì a dimostrare “quanto sia stata straordinariamente povera la comprensione della realtà da parte di coloro che nel corso del secolo hanno preso le decisioni pubbliche più importanti” (HOBSBAWM 1997: 673). I leader politici non sono garanzia di buon governo, questo è l’insegnamento che traiamo dall’analisi storica dell’età contemporanea. Purtroppo, le previsioni non inclinano all’ottimismo e tutto lascia credere che il “mondo del terzo millennio quasi certamente continuerà ad essere un mondo di politica violenta e di violenti mutamenti politici” (HOBSBAWM 1997: 536). Se proseguiamo per questa via, sappiamo che l’esito non può essere che infausto. “Il mondo rischia sia l’esplosione che l’implosione” (HOBSBAWM 1997: 674).
La ragione ci dice che “il mondo deve cambiare” (HOBSBAWM 1997: 674) se vuole sopravvivere e la speranza, che è l’ultima a morire, ci assicura che il mondo cambierà e sopravviverà. Ma, di fatto, come cambierà il mondo nel prossimo futuro nessuno lo può sapere e ci si deve accontentare di una descrizione sommaria di alcuni possibili scenari.

21. Gli italiani

21.1. Il papato da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI
All’interno della chiesa, la politica di Giovanni Paolo II (1978-2005) si distingue per un certo conservatorismo, denotato dal pieno sostegno offerto a movimenti integralisti (Comunione e Liberazione) e da altri comportamenti, come la conferma della condanna dell’uso dei contraccettivi e l’interdizione dei sacramenti ai divorziati risposati. L’iniziativa più clamorosa, in grado di contraddistinguere il pontificato di Giovanni Paolo II, è l’ammissione di errori da parte della chiesa, che rappresenta una novità nella storia del cattolicesimo e, anche se non scalfisce il primato petrino e l’ordinamento gerarchico della chiesa, che rimangono confermati (Ut unum sint, 1995), è foriera di ulteriori interessanti sviluppi, come quello di riprendere e ratificare il principio della libertà di coscienza personale di fronte a tutte le questioni più delicate, sia di ordine politico, che economico o etico. Il mea culpa del papa è anticipato dalla riabilitazione di Galileo (1992), il che, oltre a costituire un superamento dell’oscurantismo medievale, contribuisce ad accorciare le distanze fra scienza e fede. Degna di nota è la presa di posizione a favore della pace e la dura condanna da parte del pontefice della guerra degli Stati Uniti contro l’Iraq (2003).
A Giovanni Paolo II succede il cardinale Joseph Ratzinger, già segretario dell’ex Sant’Uffizio e noto per la sua rigida ortodossia, che assume il nome di Benedetto XVI (19.4.2005). Tra i primi atti del suo ufficio, c’è la pubblicazione di un nuovo Compendio del Catechismo della chiesa cattolica (giugno 2005), il quale, mentre richiama alla memoria un’analoga iniziativa di Pio X (1913), conferma il giudizio di rigidità di un personaggio, che, appena eletto, avverte il bisogno di fissare e divulgare le verità della Chiesa, in modo che siano a tutti ben chiare. In Italia, in occasione del referendum sulla procreazione assistita (12.6.2005), la chiesa scende pesantemente in campo puntando sull’obiettivo, poco democratico, di rendere nulla la consultazione e disinteressandosi di conoscere l’opinione degli elettori. In tema di morale sessuale, il papa conferma la sua opposizione agli atti che non hanno come fine la procreazione o che intendono contrastarla, come prostituzione, adulterio, masturbazione, rapporti omosessuali, contraccezione. L’opposizione si estende anche alla inseminazione e alla fecondazione artificiale, perché ciò instaurerebbe un dominio della tecnica sul naturale rapporto di coppia.
Al pari dei suoi predecessori, Benedetto XVI prende le distanze dal capitalismo, che, mettendo al primo posto la logica del profitto, spesso si rende responsabile di “gravi ingiustizie sociali” e di un “rovinoso sfruttamento del pianeta”. Il denaro in sé non è un male, ma può chiudere l’uomo in un cieco egoismo. Il papa invita pertanto a non considerare il capitalismo “l’unico modello valido di organizzazione economica” (settembre 2007). Rimane l’assenza di una proposta alternativa.

21.2. Limiti della Chiesa romana e richieste di perdono
Numerosi sono i limiti di carattere teologico che gettano dubbi e perplessità sulla chiesa cattolica, la cui descrizione richiederebbe parecchio spazio e non può essere ospitata in questa la sede. Ci limitiamo, pertanto, a rimandare il lettore al libro di Pepe Rodrígrez (1998) o quello di Emanuele Severino (1995), che non sono certo gli unici sull’argomento. Qui vogliamo solo richiamare l’attenzione sulla distanza che separa le attuali posizioni della chiesa nei confronti del Regno di Dio annunciato nei Vangeli e, più in particolare, la posizione della chiesa a proposito della ricchezza. “Gesù vuole che la ricchezza si perda affinché l’anima del ricco si salvi […]. Eppure la Chiesa esita a ripetere l’appello di Gesù ai ricchi” (SEVERINO 1995: 24-6).
Papa Giovanni Paolo II probabilmente passerà alla storia come uno dei papi più coraggiosi, che non ha esitato ad ammettere alcuni gravi errori che la chiesa ha commesso nel corso dei secoli. La chiesa dunque è fallibile. Ma, se è fallibile, con quale autorità può pretendere di essere seguita dai suoi fedeli? Il problema appare serio, ma, come avviene di consueto, i quadri ecclesiali riescono a trovare il modo per riportare le cose allo status quo ante. È il caso del cardinale di Bologna, Giacomo Biffi, il quale ha tenuto a precisare che la chiesa, in quanto sposa di Cristo, è “santa e immacolata” e, pertanto, non può errare. Errano purtroppo i suoi figli. Al cardinale chiederei: quando in ambiente ecclesiale viene presa una qualsiasi posizione, questa posizione è della Sposa immacolata di Cristo o dei suoi fallibili ministri? Nel primo caso non mi aspetterei alcuna ammissione di colpa. Nel secondo caso non vedo perché il fedele dovrebbe sentirsi obbligato a conformarsi.

21.3. Il referendum sulla procreazione assistita (12.6.05)
Le forze politiche laiche e di sinistra vogliono cambiare la legge esistente e rendere più facile la fecondazione assistita e la ricerca sugli embrioni: esse stanno dunque per il Si. Le forze politiche conservatrici e la chiesa vogliono conservare i limiti previsti dalla legge vigente e, pertanto, dovrebbero schierarsi per il No, ma, poiché temono che la maggioranza degli elettori sia orientata verso il Si, una parte di loro, e con essi la chiesa, decidono di assumere una posizione strategica e invitano la gente a non votare, sperando, in tal modo, di rendere nulla la consultazione per mancato raggiungimento del quorum. Fra coloro che invitano all’astensione ci sono alcune fra le maggiori cariche dello Stato. I fatti danno loro ragione, perché l’affluenza si rivela particolarmente bassa (25.9%) e il referendum è nullo.
Ora, se consideriamo che il 25,9% degli elettori corrisponde a circa 12 milioni e mezzo di cittadini e se teniamo conto che la percentuale dei Si ha sfiorato il 90%, ossia ha riguardato circa 11 milioni di persone, ne consegue che costoro, ossia i votanti, hanno perso, mentre è risultata vincente la maggioranza che non ha espresso alcuna opinione, ma che si è semplicemente limitata a disertare le urne. Che idea possiamo farci del livello democratico di un paese che premia l’assente e punisce chi partecipa? C’è poi un altro aspetto che merita di essere considerato. In pratica, i fautori del No vogliono imporre a tutti le restrizioni della legge attuale, mentre i fautori del Si non costringono alcuno a comportarsi in modo difforme da quello che gli suggerisce la sua coscienza. In altri termini, la vittoria del Si avrebbe rispettato la volontà di 11 milioni di elettori, senza nulla togliere alla libertà degli altri cittadini, mentre la vittoria del No ha comportato l’imposizione autoritaria della volontà (non espressa) di una maggioranza su una minoranza. Si può parlare di democrazia?

21.4. Tangentopoli
Superata la paura del comunismo e grazie al processo di revisione del PCI (1990), che cambia il proprio nome in Partito democratico di sinistra (PDS), tutte le forze politiche italiane appaiono legittimate a far parte del governo e inizia una fase politica nuova, dove l’attenzione non è più puntata su un nemico da combattere, ma sul buon governo. È in questa fase che, guardando alla politica con occhi nuovi, si scorge una realtà da scandalo, segnata dal fatto che i partiti politici appaiono per quello che, forse, sono sempre stati: vere e proprie fabbriche di voti, che, grazie al consenso popolare espresso attraverso il voto, dispongono di un potere enorme, di cui, spesso, gli eletti si servono per fini personali. Così, i parlamentari competono fra loro per spartirsi le cariche più autorevoli e prestigiose (lottizzazione) e, nello stesso tempo, favoriscono i propri elettori (clientelismo), allo scopo di assicurarsene il consenso, creando, in tal modo, le condizioni per uno strapotere dei partiti, o partitocrazia. In un siffatto sistema diventa difficile per un cittadino affermarsi nella società, fare carriera e rendere stabile la propria posizione senza essere iscritto ad un partito o senza poter contare sull’appoggio di un uomo di partito.
Col passare del tempo, fare politica diventa, per molti, un pretesto per favorire il proprio partito (finanziamenti illeciti) o per arricchirsi personalmente (corruzione). È grazie alle indagini svolte dalla magistratura, la cosiddetta operazione “Mani Pulite” (1992), che si prova l’esistenza di collegamenti tra partiti politici, mondo imprenditoriale e criminalità organizzata (mafia, camorra, ‘ndràngheta). “Mani Pulite” scopre che non vi è praticamente nessun organismo istituzionale che non sia stato coinvolto in una sistematica distrazione delle risorse della pubblica amministrazione per interessi di partito o personali. Scopre anche che il potere mafioso è compenetrato nella politica ed è in grado di pilotare o condizinare scelte cruciali della vita nazionale in direzione favorevole ai propri interessi. Scopre, in definitiva, quel sistema di malgoverno, che viene chiamato Tangentopoli. Adesso quello che prima poteva semplicemente essere sospettato diviene certezza: preoccupata più di favorire questo e quello che di governare nell’interesse generale, la classe politica non ha promosso le necessarie riforme economiche e sociali, né ha contrastato efficacemente l’evasione fiscale e ha lasciato che il bilancio dello Stato diventasse sempre più negativo.

21.5. La Seconda Repubblica
Il terremoto di Tangentopoli è tale da indurre i partiti a rinnovarsi, assumere nomi nuovi, cambiare i quadri dirigenti e riformulare i propri programmi: la Dc si trasforma in Ppi, il Msi in An, mentre spariscono formazioni con una lunga tradizione quali il Psi, il Psdi e il Pli. Prende forma così quella che viene chiamata «Seconda Repubblica», che, ad onta del termine “Seconda”, conserva le medesime norme politiche della “Prima”, né adotta misure atte a scongiurare la perpetuazione di Tangentopoli, o un ritorno alla stessa. Dietro al cambiamento dei nomi e dei propositi, l’apparenza è tale da indurre molti a ritenere che il sistema politico della Seconda Repubblica non sia sostanzialmente cambiato rispetto alla Prima.
Per fondare la Seconda Repubblica era necessario riformare la Costituzione. “Le vie percorribili per arrivare alle riforme erano in sostanza due: una Costituente, ossia parlamento «monotematico», che in piena autonomia rifondasse la Repubblica; o una Commissione bicamerale – composta cioè in pari numero da deputati e senatori – che elaborasse un progetto da sottoporre alla decisione finale del Parlamento...” (MONTANELLI, CERVI 1997: 185). Si decise per la Bicamerale. La Commissione, incaricata di ridisegnare il profilo della Costituzione, composta da 70 saggi sotto la presidenza di Massimo D’Alema, fece il suo esordio il 5 febbraio 1997. Era previsto che essa avrebbe dovuto concludere i suoi lavori il 30 giugno 1997. “Dopodiché spettava alla Camera e al Senato, in due votazioni intervallate d’almeno tre mesi l’una dall’altra, di approvare – o no – il progetto o i progetti di riforma. Concluso anche questo iter parlamentare complesso, le modifiche della Costituzione sarebbero state sottoposte a un referendum popolare confermativo” (MONTANELLI, CERVI 1997: 188).
Nel 1994 si affaccia sulla scena politica italiana un uomo nuovo, che dichiara di essere in grado di imprimere una svolta decisiva al paese attraverso riforme radicali, che dovrebbero elevare il livello minimo delle pensioni sociali, ridurre la disoccupazione e le tasse, realizzare grandi opere pubbliche, far crescere l’economia e la ricchezza degli italiani, senza ridurre la spesa sociale. Quest’uomo promette che farà dell’Italia un paese profondamente rinnovato e migliore, sotto tutti i punti vista, compreso quello dell’ordine e della sicurezza sociale, dell’istruzione e della giustizia, e afferma che snellirà il farraginoso mondo delle leggi e le complesse procedure burocratiche, rendendo il paese più agile e funzionale. Quest’uomo nuovo è Silvio Berlusconi, un imprenditore di successo, che, nella crisi che sta scuotendo il vecchio “regime dei partiti”, ha capito che “può fare a meno della mediazione politica altrui (…) e punta direttamente al governo” (PACI 1996: 773). Ma chi è, precisamente, costui?

Elezioni politiche dal 1953 al 1994
(dati in percentuale riferiti solo ad alcuni partiti)
1953 1958 1963 1968 1971 1976 1979 1983 1987 1992 1994
Dc 40,1 42,4 38,3 39,1 38,7 38,7 38,3 32,9 34,3 29,7 -
Ppi - - - - - - - - - - 11,1
Pci 22,6 22,7 25,3 26.9 27,1 34,4 30,4 29,9 26,6 - -
Pds - - - - - - - - - 16,1 20,4
Psi 12,7 14,2 13,8 14,5 9,6 9,6 9,8 11,4 14,3 13,6 -
Msi 5,8 4,8 5,1 4,4 8,7 6,1 5,3 6,8 5,9 5,4 -
An - - - - - - - - - - 13,5
Lega nord - - - - - - - - - 8,8 8,4
Forza Italia - - - - - - - - - - 21

21.6. L’ascesa di Silvio Berlusconi
Silvio Berlusconi nasce il 29 settembre 1936 a Milano, da un impiegato di banca. La situazione economica della famiglia è tale che il giovane Silvio deve ingegnarsi per raggranellare qualche soldarello per mantenersi agli studi, e lo fa impegnandosi in diverse attività, come quella del venditore porta a porta, del fotografo e dell’intrattenitore, per poi impiegarsi in un’impresa di costruzioni. Nel 1961 si laurea in giurisprudenza col massimo dei voti e la tesi gli frutta una borsa di studio di due milioni. Evitato in qualche modo il servizio di leva, Berlusconi si dà subito agli affari e fonda la sua prima impresa di costruzioni, la Cantieri Riuniti Milanesi. È il primo passo di una fortunata attività imprenditoriale, che si estenderà dal campo della finanza a quello dell’informazione, dalla pubblicità all’editoria, dallo sport alle assicurazioni, dal cinema ai servizi telematici. Nel 1965 sposa Carla Elvira Dall’Oglio, che gli dà due figli: Maria Elvira (1966) e Pier Silvio (1969). Dal 1969 al 1979 si occupa del progetto e della costruzione di “Milano 2”, la città satellite alle porte del capoluogo lombardo, cui segue la realizzazione di “Milano 3” e del centro commerciale “Il Girasole”. Nel 1973 stringe rapporti con Marcello Dell’Utri, un giovane della piccola borghesia palermitana, e si avvicina all’ambiente mafioso siciliano (FIORI 2004: 65).
Intorno al 1980 si iscrive alla loggia massonica P2 di Licio Gelli e, nello stesso periodo, si dedica alla produzione televisiva e trasforma la tv via cavo di Milano 2 in una televisione nazionale: nascono Canale 5, prima rete televisiva privata nazionale, e Publitalia, la relativa concessionaria di pubblicità, che fanno capo all’holding Fininvest, fondata nel 1978. Il successo ottenuto con Canale 5 spinge Berlusconi ad acquistare anche le reti televisive Italia Uno (da Rusconi, nel 1982) e Retequattro (da Mondadori, nel 1984), che vengono trasformate anch’esse in network nazionali. Nel 1984, dall’unione con Veronica Lario, nasce Barbara, che viene battezzata dal presidente del Consiglio in carica, Bettino Craxi, a riprova del fatto che fra l’uomo politico e l’imprenditore milanese i rapporti sono molto stretti.
Nel 1985 un pretore ordina l’oscuramento delle sue tv. La ragione è la seguente: il meccanismo ideato da Berlusconi per avere una programmazione nazionale –la cosiddetta interconnessione per cassettazione ovvero l’invio dei programmi tramite videocassette, che vengono trasmesse negli stessi orari da emittenti locali– viene giudicato fuori legge. In suo aiuto interviene il presidente del Consiglio, Bettino Craxi, che, con due decreti, autorizza le trasmissioni televisive private a livello nazionale, rendendo legittimo il duopolio televisivo RAI-Fininvest. Sempre nello stesso periodo Berlusconi diventa proprietario del settimanale Sorrisi e Canzoni TV e, poco dopo (1986), presidente della squadra di calcio Milan A.C., che sotto la sua gestione conoscerà periodi d’oro, ottenendo molti titoli, sia a livello nazionale che internazionale.
Nel 1989 comincia la cosiddetta “guerra di Segrate”, che vede Berlusconi da una parte e Carlo De Benedetti, Caracciolo e Scalfari dall’altra contendersi il gruppo Mondadori, che alla fine viene diviso: il settore della produzione dei libri e il settimanale Panorama passano a Berlusconi, mentre l’Espresso e altri giornali locali vanno a De Benedetti-Caracciolo. Intanto, dopo la legge Mammì sull’editoria e la TV (1990), Berlusconi è costretto a cedere Il Giornale, fondato e diretto per qualche anno da Indro Montanelli, e lo affida al fratello Paolo. Nello stesso periodo in cui cresce sotto il profilo editoriale, il gruppo Fininvest sviluppa una forte presenza anche nel settore delle assicurazioni e della vendita dei prodotti finanziari con le società Mediolanum e Programma Italia. Tutto questo fa sì che all’inizio degli anni ‘90 la Fininvest diventi il secondo gruppo privato italiano con oltre 40 mila dipendenti.
I primi anni Novanta segnano un periodo di stagnazione e di crisi per la Fininvest, che sembrano preludere ad oscuri presagi dopo che l’uragano chiamato “Tangentopoli” ha travolto e fatto uscire di scena Bettino Craxi (1993). È in questo frangente che Silvio Berlusconi annuncia il suo ingresso in politica (gennaio 1994) e, dopo essersi dimesso da tutte le cariche ricoperte nel Gruppo Fininvest, fonda il partito Forza Italia, che, insieme ad altri partiti (Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini, Lega Nord di Umberto Bossi e CCD di Pierferdinando Casini e Clemente Mastella), con i quali forma il “Polo delle Libertà” (PDL), si presenta alle elezioni politiche. La scelta di Berlusconi è strategica: in passato, egli ha frequentato i palazzi del governo per guadagnarsi il necessario appoggio politico alle proprie intraprese economiche e ha trovato in Craxi un generoso interlocutore ma, adesso che Craxi è caduto, il Cavaliere intuisce che la cosa migliore da fare per lui è tentare la scalata al potere politico. Acquisita la consapevolezza che, solo diventando capo del governo, egli potrà modificare le leggi a proprio favore e garantire la stabilità e la crescita del suo impero economico, si muove di conseguenza e con la stessa determinazione che lo ha sempre contraddistinto in passato, tutte le volte che ha fiutato un affare.
Nonostante l’evidente conflitto d’interessi, che l’Opposizione non manca di evidenziare, e un certo numero di reati che gli vengono imputati, Berlusconi riesce a vincere le elezioni e diviene capo dell’esecutivo. Il nuovo governo nasce tra mille polemiche e si muove con difficoltà. I primi problemi arrivano a luglio, quando, tentando di far approvare un decreto per uscire da Tangentopoli, il Polo entra in rotta di collisione con il Pool di Mani pulite, di cui fa parte Antonio Di Pietro, che è divenuto una sorta di simbolo nazionale del rinnovamento del mondo politico, ed è costretto alla retromarcia. Lo stesso avviene per la riforma delle pensioni e della finanza, che vengono bloccate da manifestazioni di piazza e dalla dura opposizione del sindacato. Ma il colpo finale Berlusoni lo subisce a Napoli, dove, mentre sta presiedendo la Conferenza mondiale contro la criminalità organizzata, viene raggiunto da un avviso di garanzia per corruzione dal Pool di Milano. Berlusconi in seguito verrà prosciolto dalle accuse, ma il danno di immagine è enorme. Costretto a destreggiarsi fra gli impegni politici e i diversi processi giudiziari in cui è coinvolto, Berlusconi non cessa di curare i suoi affari e, nel 1995, fonda Mediaset, una società che abbraccia le sue attività cinematografiche, televisive e telematiche, e che viene quotata in Borsa nel 1996, con un prezzo per azione pari a circa 3,5 euro. A causa della defezione della Lega Nord, tuttavia, dopo appena dieci mesi di governo, Berlusconi è costretto a dimettersi.
Alle politiche del 1996, senza l’appoggio leghista, Berlusconi è sconfitto dal leader dell’Ulivo, Romano Prodi, ma già alle elezioni europee del 1999 Forza Italia sfiora il 30 per cento dei voti e vince anche alle Regionali. Intanto Berlusconi viene prosciolto da alcune delle accuse di cui è stato fatto oggetto, mentre altri processi cadono in prescrizione (1999). Il 8.5.2001, davanti alle telecamere di Porta a porta, firma un “contratto con gli italiani”, in cui promette di rinnovare il paese e di ritirarsi dalla politica se non avrà raggiunto gli obiettivi prestabiliti. Affermatosi alle elezioni del 13.5.2001, che lo vedono alleato con Alleanza Nazionale, Lega Nord, CCD-CDU e Nuovo Partito Socialista, Berlusconi diviene, per la seconda volta, capo del governo, mentre Forza Italia è il primo partito italiano con il 29,4 per cento dei voti.
Tra le prime leggi varate dal parlamento ce ne sono alcune che favoriscono Berlusconi, come quella sulle rogatorie internazionali (settembre 2001), che rende più difficile l’azione della magistratura, quella che depenalizza il falso in bilancio (gennaio 2002), la cosiddetta legge Cirami sul “legittimo sospetto” (novembre 2002), che consente ad un imputato la facoltà di chiedere lo spostamento della sede processuale e prolungare i tempi della giustizia, il “lodo Schifani” (giugno 2003), che prevede l’immunità nei confronti delle cinque più alte cariche dello Stato, la legge Gasparri sul riassetto del sistema televisivo (dicembre 2003), i condoni per gli evasori fiscali, l’abolizione delle tasse di successione, ed altre ancora, alcune delle quali verranno giudicate incompatibili con la Costituzione. Ad ogni nuova legge dello Stato, molti si chiedono se essa non faccia più gli interessi personali di Berlusconi che quelli generali del paese. Per quanto onesto possa essere il premier, aleggia sempre il dubbio che l’attività legislativa del Parlamento sia asservita in qualche modo ai suoi fini. Volendo sgombrare il campo da ogni sospetto, si giunge alla legge Frattini (luglio 2004), la quale cambia sì qualcosa, ma lascia inalterata la sostanza delle cose.
“La novità fondamentale è che il conflitto di interessi riguarda gli amministratori delle società ma non i proprietari: in altri termini, Fedele Confalonieri è incompatibile con cariche di governo, Silvio Berlusconi no […]. In conclusione, la legge non riguarda i proprietari di imprese di qualunque dimensione né in particolare i proprietari di imprese operanti nel settore della comunicazione e dell’informazione: i proprietari sono infatti considerati dalla legge Frattini del tutto indifferenti alla sorte del loro patrimonio quando ricoprono incarichi di governo” (ALBORGHETTI 2005: 251-2). Questa intensa attività legislativa interessata, oltre al controllo, da parte del premier, di gran parte dei mezzi di comunicazione di massa, inducono gli avversari politici a parlare di un governo personalistico e di “formazione di un regime non democratico, lontano dai principi della Costituzione repubblicana, pericoloso per le libertà fondamentali degli italiani” (TRANFAGLIA 2004: 124).
Se a ciò si aggiunge la perdurevole crisi economica, che continua ad affliggere il bilancio sia dello Stato che di molte famiglie italiane a reddito medio-basso, si può ben comprendere la costante flessione dei consensi elettorali nei confronti di Berlusconi e di Forza Italia. A seguito dei risultati negativi nelle elezioni europee del 2004 e, soprattutto, in quelle regionali dell’aprile del 2005, Berlusconi si vede costretto a sciogliere l’esecutivo, ma riesce a conservare il premierato, seppur con una nuova compagine di ministri. Nonostante le difficoltà in campo politico, gli affari economici di Berlusconi vanno a gonfie vele se è vero che, nel luglio 2005, ogni azione Mediaset vale poco meno di 10 euro.
Nel suo procedere Berlusconi ricorda altri grandi uomini del passato, come Napoleone e Mussolini, i quali, come sappiamo, agirono in due diverse fasi: nella prima, quella della scalata al potere, essi si preoccuparono di guadagnare la fiducia delle masse, nella seconda, dopo la conquista del potere, essi si liberarono degli avversari, insediarono nei posti più importanti uomini fidati e imposero la loro legge. Queste due fasi appaiono ben visibili anche nel caso di Berlusconi, il quale, nel corso della sua campagna elettorale, che è massiccia e prolungata, prima stringe un Patto con gli italiani, promettendo di migliorare il paese e arricchire i cittadini, e ne conquista la fiducia, poi, raggiunto il potere, allontana i giornalisti scomodi (come Santoro e Biagi) e si impegna in una serie di riforme sulla giustizia, sulla Costituzione e sul diritto, che, di fatto, ne accrescono enormemente il potere personale e fanno di lui un leader quasi insostituibile.
Sul finire del suo mandato, il principale scopo di Berlusconi sembra quello di essere confermato nel ruolo di premier alle elezioni del 2006. Solo così, infatti, potrà mettere al sicuro la sua persona da eventuali altre azioni giudiziarie per altri cinque anni e, contemporaneamente, potrà preparare una successione politica all’interno della propria famiglia, per esempio, lanciando nell’agone politico un proprio figlio e, instaurando, in tal modo, una dinastia, al fine di mettere al riparo da ogni rischio futuro il proprio impero economico. Purtroppo per lui, le consultazioni elettorali degli anni 2002-2005 palesano un evidente calo di consensi, che appare legato a diversi fattori, come il carovita e la recessione economica, i quali si aggiungono al mai risolto conflitto d’interessi.
La speranza di un ribaltamento dei pronostici è legata da una parte alla politica di Berlusconi che, ad un anno delle votazioni, dovrà necessariamente giocare d’azzardo e ostentare sicurezza nonostante tutto, riducendo ancora le tasse e allentando i cordoni della borsa, anche a costo di portare il paese sull’orlo del disastro e sperando, nel contempo, nella complicità di una UE, che, uscita indebolita dal risultato negativo dei referendum francese e olandese per l’approvazione della Costituzione (maggio-giugno 2005), è alla ricerca di punti d’appoggio. Dall’altra parte, la speranza di affermazione di Berlusconi nelle elezioni del 2006 è legata al comportamento dell’Opposizione, che è chiamata dai propri elettori a mantenersi coesa e a produrre un programma di governo valido e condiviso. Finché l’Opposizione rimane divisa e incapace di presentarsi con un programma alternativo chiaro e credibile, Berlusconi ha molte chance di essere rieletto, se non per le sue qualità politiche, almeno per il fatto di apparire alla maggioranza degli elettori come il minore dei mali.
Se questo dovesse accadere, Berlusconi si verrà a trovare in una botte di ferro e potrebbe portare a termine i suoi disegni indisturbato. Quando il Cavaliere avrà imposto la sua legge e tutta l’informazione sarà sotto il suo controllo, allora sarà pressoché impossibile liberarsi di lui, anche in caso di politica impopolare, che potrà sempre essere addebitata a cause esterne, come l’UE o congiunture internazionali. Ce lo insegna la storia: un popolo drogato dalla propaganda e dalla demagogia, può continuare a sostenere il suo tiranno anche in momenti difficili. Infatti, benché avessero limitato le libertà democratiche, imposto un regime paternalistico e condotto i rispettivi paesi alla guerra, Napoleone e Mussolini furono amati dai loro popoli e conservarono la fiducia delle masse fino alla disfatta militare. Anche Berlusconi potrà continuare a riscuotere il consenso dei cittadini, perfino in caso di evidente malgoverno o errori clamorosi, e poiché, a differenza di Napoleone e Mussolini, essendo il cielo italiano sgombro da venti di guerra, egli non corre il rischio di andare incontro ad una disfatta militare, potrebbe riuscire, primo caso al mondo, a fondare una dinastia “democratica”!
Il risultati delle elezioni politiche del 9-10 aprile 2006 soltanto per un soffio non coronano i sogni di Berlusconi. L’affluenza è altissima (81,4%, pari a 39,253.595 votanti), a dimostrazione che il clima emotivo è dei più intensi. Alla Camera vince l’Unione con uno scarto di appena 24,755 voti e ottiene, grazie al premio di maggioranza, 348 seggi contro i 281 degli avversari. Al Senato il Centro-Destra ottiene più preferenze (50,21%) rispetto all’Unione, ma, a causa dell’intrigata legge elettorale vigente, avviene che all’Unione vengano assegnati 158 senatori contro i 156 della CDL. Governare il paese disponendo di una maggioranza così risicata si prospetta un’impresa ai limiti dell’impossibile, ma Romano Prodi non intende tirarsi indietro e rifiuta la proposta degli avversari di creare una grande coalizione.
Purtroppo, le previsioni della vigilia si rivelano fondate e Prodi fa davvero fatica a governare il paese e spesso deve fare ricorso alla fiducia e al voto dei senatori a vita. La sensazione è quella di un governo che debba cadere da un momento all’altro ma che, miracolosamente, riesce a tenersi dritto. Sicuramente a causa di tali difficoltà, ma forse anche a causa di limiti strettamente politici della coalizione governativa, Prodi non riesce a produrre risultati degni di nota e a fatica si riesce a percepire un netto cambiamento di rotta rispetto al governo precedente. Non risolve la questione relativa al conflitto di interessi, non reintroduce la tassa sulle eredità, non aumenta la tassazione delle rendite finaziarie, non riduce i costi della politica, introduce un sistema di liberalizzazioni, di stampo destroide, i cui vantaggi, peraltro, sono dubbi e di scarso rilievo. Il rifiuto dei condoni fiscali determina una maggiore entrata delle imposte, che però non viene redistribuita in modo che i cittadini ne traggano un sensibile beneficio, né per ridurre il debito pubblico. L’indulto fa uscire migliaia di detenuti dal carcere e ciò viene percepito dalla pubblica opinione come un atto di ingiustizia oltre che un rischio per i cittadini. Nello stesso tempo, venticinque parlamentari condannati in giudizio per vari reati conservano la loro carica e ciò scatena l’indignazione del comico genovese Beppe Grillo, che riesce a portare nelle piazze centinaia di migliaia di persone, che sono stufe di una classe politica che costa tanto e rende poco.
Il 14 ottobre 2007 viene fondato il Partito Democratico (PD), dove confluiscono i due principali partiti del Centrosinistra: i Democratici di Sinistra (DS) e la Margherita (DL), oltre ad altre formazioni minori. Il PD si propone come evoluzione delle esperienze politiche dell’Ulivo e il suo scopo è quello di fondere le culture socialdemocratica, cristiano-democratica, liberale e ambientalista. Alla segreteria viene eletto Walter Veltroni, il quale lancia l’idea di una riforma elettorale di tipo proporzionale. Intanto, Berlusconi si dice certo che il Governo non supererà la metà di novembre ma, venendo smentito dai fatti, è costretto a subire una presa di distanza da parte di alcuni suoi alleati. La Casa delle Libertà comincia dunque a sgretolarsi e già Berlusconi pensa di fondare un nuovo partito (18 novembre 2007), che si dovrebbe chiamare Partito del Popolo della Libertà (PDL), ma che prenderà il nome definitivo di “Il Popolo della Libertà” (12 dicembre 2007), e si dice disposto ad accettare il dialogo con Veltroni e perfino a condividere la sua proposta di sistema elettorale proporzionale. I suoi alleati mugugnano e la Casa delle Libertà sembra vacillare, quando, provvidenzialmente, il governo Prodi viene sfiduciato in Senato e cade (24 gennaio 2008), anche per la defezione del ministro Clemente Mastella, che, essendo inquisito dalla magistratura, non si sente sufficientemente appoggiato dalla maggioranza.
Si apre così una campagna elettorale, che ha in Veltroni e Berlusconi i principali leader. La novità è rappresentata dal partito di Veltroni, che dichiara di voler correre da solo, di voler fare cioè a meno dei piccoli partiti, che avevano condizionato negativamente la politica del precedente governo. Al PD si uniscono prima l’Italia dei Valori, poi i Radicali Italiani. Berlusconi risponde fondendosi con Alleanza Nazionale (8 febbraio 2008). La Lega Nord aderisce al PDL, ma senza confluirvi. L’UDC invece non intende rinunciare al proprio simbolo e decide di correre da sola, formando, insieme alla “Rosa Bianca”, la cosiddetta Costituente di Centro. Gli altri partiti si devono adeguare. Rifondazione Comunista, Partito dei Comunisti Italiani, Federazione dei Verdi e Sinistra Democratica si uniscono sotto un unico cartello elettorale, La Sinistra – l’Arcobaleno. Completano gli schieramenti alcuni parti minori, quali la Destra – Fiamma Tricolore e il Partito Socialista, mentre l’UDEUR di Mastella, consapevole di non avere chance di affermazione, si ritira dalla competizione.
Berlusconi e Veltroni hanno dalla propria parte i tre quarti dell’elettorato e, dunque, sono loro che competono per la vittoria, con Berlusconi favorito nei sondaggi. Chiunque sarà vincitore aspira a governare senza il condizionamento di partiti minori e non è escluso che possano decidere di coalizzarsi nel caso in cui uno dei due dovesse affermarsi con una maggioranza risicata. A questo penseranno dopo: intanto devono cercare di conquistare più voti possibile e perciò puntato ciascuno sui rispettivi programmi, che hanno in comune tre cose: sono simili, sono attraenti, richiedono un costo nettamente superiore alle disponibilità del paese. Insomma, sono in buona parte solo promesse di propaganda, fatte allo scopo di conquistare consensi.
Il verdetto elettorale del 14 aprile premia lo schieramento di Berlusconi, che ottiene il 46,7% dei consensi alla Camera e il 47% al Senato (PDL 37,2 e 38,1%; Lega Nord 8,4 e 8,1%; Mpa 1,1 e 1,1%). Lo schieramento di Walter Veltroni ottiene il 37,6% alla Camera (di cui il 4,4% è dell’IDV) e il 38,1 al Senato (4,3% IDV). Regge l’UDC di Casini (5,6 e 5,7%). Non riescono a superare il livello di sbarramento ed escono di scena tutti gli altri schieramenti e partiti, fra cui la Sinistra Arcobaleno di Bertinotti (3,1 e 3,2%), il partito socialista di Boselli (1,0 e 0,9%) e la Destra-Fiamma Tricolore di Santanchè (2,4 e 2,1%). In pratica, l’Italia ha perso la Sinistra ed è l’unico paese europeo privo di un partito socialista. Ora, solo tre forze politiche compongono il Parlamento e si configura un quadro politico che somiglia ad un bipolarismo.
Il 6-7 giugno 2009 si svolgono le elezioni europee. Gli elettori italiani sono 50.341.790. Votano in 32.747.722 (65,05%). Schede bianche 990.689 (3.02%). Schede nulle 1.103.510 (3,36%). PDL 10.807.327 (35,26%); PD 8.007.854 (26,13%): LN (3.126.915 (10,20%); IDV (2.452.569 (8%); UDC 1.996.901 (6,51%); Rifondazione comunista/Sinistra europea/Comunisti italiani 1.038.247 (3,28%); Sinistra e Libertà 958.458 (3,12%); Lista Marco Pannella – Emma Bonino 743.273 (2,42%); La Destra/MPA/Pensionati/Alleanza di centro 682.046 (2,22%); Altri schieramenti, tutti con consensi inferiori all’1%. I partiti al di sotto del 4% non ricevono seggi a causa dello sbarramento. Le novità più importanti di questi risultati sono che Berlusconi non consegue il trionfo sperato (si stimava che dovesse superare il 40%), che il PD perde ma non crolla come si ipotizzava, crescono invece LN e IDV.

20. L’Unione Europea

La caduta dei regimi comunisti (1989) contribuisce ad accelerare e rilanciare il processo di unità europea, che prende il via con gli accordi di Maastricht (1991), i quali prevedono per il 1999 l’entrata in vigore dell’Unione monetaria, limitatamente ai paesi che avranno soddisfatto le seguenti condizioni: disavanzo pubblico entro il 3%, debito pubblico entro il 60% del Pil, tasso d’inflazione entro il 1,5%. Nel febbraio 1992, dodici paesi membri della CEE (Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna) siglano il trattato di Maastricht, che entra in vigore il 1.1.1993 e, con esso, prende il via un nuovo soggetto politico, l’Unione Europea (UE), che ha proprie istituzioni (Parlamento, Consiglio, Commissione europea, Corte di giustizia e Corte dei conti). Nel 1995 aderiscono Svezia, Austria e Finlandia, che portano a 15 i membri. Nel 1999 dodici paesi (Austria, Belgio, Finlandia Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna) si accordano per realizzare un’Unione economica e monetaria, che prevede una moneta unica, l’Euro, che inizierà a circolare il 1.1.2002.
Intanto (dicembre 2000) si porta a termine il trattato di Nizza, in cui viene proclamata la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, che verrà incorporata nella costituzione europea. L’anno seguente (dicembre 2001) il Consiglio europeo riunito a Laeken approva la Dichiarazione n. 23, dove si delinea il futuro dell’UE e si istituisce la Convenzione europea con l’incarico di redigere la Costituzione. Una volta scritta (10 luglio 2003), questa viene prima sottoposta ad alcune modifiche e poi viene approvata dalla Conferenza Intergovernativa (18 giugno 2004), che non accoglie la proposta di inserire il riferimento alle «radici cristiane dell’Europa», e sottoscritta dai 25 capi di Stato e di governo dell’Unione a Roma (29 ottobre 2004). Nello stesso tempo si stabiliscono le condizioni di adesione per altri dodici paesi candidati, alcuni dei quali (Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria) diventano membri effettivi, nel 2004, altri (Bulgaria e Romania) nel 2007.
Prima di entrare in vigore, la Costituzione deve essere ratificata dagli Stati membri attraverso un referendum o una legge, secondo l’ordinamento costituzionale del singolo paese. La maggior parte degli Stati ratifica, ma l’esito negativo dei referendum in Francia e Olanda (2005) segnano una battuta d’arresto dell’iter di ratifica, che viene cancellato per gli Stati che ancora non l’hanno votato, cioè la Repubblica Ceca, la Danimarca, l’Irlanda, la Polonia, il Portogallo e il Regno Unito, il che finisce per indebolire la già fragile UE e rendere più difficile il cammino per la sua piena attuazione. Finché non si risolve la questione, il potere delle istituzione europee rimane limitato e non è in grado di consentire all’UE né di svolgere un ruolo forte in politica internazionale, né di incidere in modo sostanziale nelle politiche interne dei singoli paesi membri.
Alla fine, con la Dichiarazione di Berlino del 25 marzo 2007, in occasione dei 50 anni dell'Europa unita, si decide di redigere un nuovo Trattato di riforma, da sottoporre all’approvazione degli Stati solo per via parlamentare, nel 2009, anno delle elezioni del nuovo Parlamento europeo. Il nuovo Trattato viene definito a Bruxelles tra il 21 e il 23 giugno 2007 e firmato a Lisbona dai capi di Stato e di governo il 13 dicembre 2007, ponendo fine così a 2 anni e mezzo di incertezza istituzionale. Ciò che caratterizza il nuovo Trattato è l'eliminazione di qualsiasi riferimento costituzionale (simboli, nomenclatura, struttura del testo), in modo da presentarsi come uno strumento pattizio e non un atto fondativo di una nuova entità sovranazionale.
Oggi, secondo Parag Khanna, per poter esprimere un’adeguata politica di potenza, l’UE avrebbe bisogno di includere i Balcani e la Turchia, ma anche di espandersi, attraverso il corridoio caucasico, fino alla Russia (2009: 105).

19. Il caso Iraq

Alla fine degli anni Ottanta, prostrato da un’estenuante e inconcludente guerra contro l’Iran (1980-88), che egli stesso ha scatenato con intenti egemonici nell’area del Golfo Persico e nella convinzione che si tratti di una guerra lampo, il dittatore iracheno, Saddam Hussein, si trova in difficoltà economiche e in debito d’immagine. In questo momento, prendendo a pretesto la politica del ricco emirato del Kuwait, che è favorevole a mantenere bassi i prezzi del petrolio, e pensando di rifarsi, sia sotto il profilo economico che dell’immagine, Saddam invade il Kuwait e lo annette, come se fosse una provincia irachena (1990). Il presidente americano George Bush, non ci sta e, dopo che l’ONU ha intimato invano a Saddam di ritirarsi, scatena la cosiddetta guerra del Golfo, che si conclude con il ripristino dell’indipendenza dell’emirato (1991).
Dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti tornano ad occuparsi dell’Iraq, che è sospettato di produrre armi di distruzione di massa in violazione alle risoluzioni dell’Onu. Il 19 marzo 2003 iniziano l’attacco all’Iraq, sostenuti da una trentina di paesi, nonostante il parere contrario di un numero maggiore di paesi e, soprattutto, di opinioni pubbliche. In meno di un mese le truppe americane entrano a Baghdad e Saddam si dà alla fuga. Il 22 maggio 2003 la guerra ufficiale finisce e comincia la guerriglia, mentre una forza multinazionale rimane insediata nel territorio con l’obiettivo di assicurare l’ordine. Il 30 maggio 2005 si svolgono regolari elezioni politiche e nell’ottobre seguente viene approvata una nuova Costituzione, ma ciò non basta ad introdurre la democrazia e la pace in paese che continua a registrare attentati, scontri e disordini. Bilancio del conflitto: oltre centomila morti iracheni, circa 3500 morti americani.

18. Il caso Iran

Nel giugno 2005 viene eletto alla presidenza della Repubblica iraniana il quarantanovenne ex ufficiale e sindaco di Teheran, Mahmud Ahmadinejad. Ultraconservatore e integralista, il nuovo presidente è apprezzato dalla gente per il suo stile di vita semplice e per la sua fama di essere difensore delle classi più umili e di incorruttibilità. Ahmadinejad annuncia subito che il suo paese procederà speditamente sulla strada dell’armamento nucleare per entrare nel novero delle grandi potenze. Invoca la cancellazione di Israele dalla mappa geografica e agli Stati Uniti augura morte. Una linea dura, dunque, che crea apprensione non solo negli stessi Stati Uniti e Israele, ma anche nel mondo intero.

17. Israele

Nel 1993 Arafat, e Rabin sottoscrivono la Dichiarazione dei principî di Oslo, che prevede il riconoscimento reciproco tra Israele e Olp, il ritiro israeliano dai territori occupati e l’autonomia di governo dei palestinesi nei loro territori, che sono la Cisgiordania, la striscia di Gaza e Gerico. Sulla scia di questo nuovo corso nasce la cosiddetta Autorità nazionale palestinese (ANP), di cui diviene presidente lo stesso Arafat, ma lo stato delle cose non cambia: l’occupazione israeliana continua, i patti di Oslo non vengono rispettati da entrambe le parti e lo stesso Rabin viene assassinato (1995). I rapporti fra ebrei e palestinesi rimangono tesi e, nel 2000, in risposta al fallimento dei colloqui Arafat-Barak, si assiste ad una brusca interruzione del processo di pace e allo scoppio di una seconda intifada.
Nel 2001, dopo l’ennesimo fallimento di una trattativa di pace promossa dal presidente americano Clinton, viene eletto a capo di governo Ariel Sharon, che adotta una linea piuttosto dura rispondendo sistematicamente con bombardamenti agli attacchi kamikaze dei Palestinesi, occupando militarmente i territori palestinesi, rendendo impossibile, o limitando al massimo, l’entrata dei Palestinesi in territorio israeliano.
Nel 2002 riprendono i negoziati di pace, che culminano in un piano denominato Road Map, che prevede “una serie di tappe per giungere alla creazione, entro il 2005, di uno Stato palestinese indipendente nei territori occupati (senza però definirne i confini), in cambio dell’impegno palestinese di porre fine agli attacchi terroristici contro Israele” (PAPPE 2005: 321). La pace però non arriva e, infine, gli ebrei decidono di erigere un muro che li separi dai territori palestinesi e renda impossibile la penetrazione dei kamikaze.
Agli inizi del 2004 inizia il processo al “muro” da parte della Corte Internazionale dell’Aja, che però gli ebrei non riconoscono. Intanto muore Arafat e al suo posto s’insedia Abu Mazen (2004), il quale, essendo di tendenze moderate, lascia presagire un avvicinamento della pace. Un primo significativo passo avanti in tale direzione può essere considerato il ritiro dei coloni ebrei da Gaza (agosto 2005), che segna la fine dell’occupazione israeliana in quel territorio, ma ancora il cammino per la pace sembra lungo.
Alle elezioni del 25.1.2006, l’affermazione di Hamas, che conquista la maggioranza assoluta (76 seggi su 132, contro i 43 di Fatah), alimenta un senso di inquietudine non solo in Israele ma anche nel mondo, che adesso vede soffiare tempi di guerra. Hamas, infatti, è un movimento integralista, che non riconosce lo Stato di Israele e vuole la cessazione dell’occupazione delle loro terre, anche ricorrendo all’uso della forza. Al contrario, Fatah è un partito moderato, che riconosce Israele e vuole la pace. Intanto, colpito da un ictus cerebrale, esce di scena il primo ministro Sharon e al suo posto si insedia Ehud Olmert (maggio 2006).
Nel luglio 2006 prende inizio la guerra israelo-libanese, una guerra che Israele muove contro Hezbollah (Partito di Dio), colpevole di avere fatto prigionieri due soldati ebrei e di rappresentare una minaccia per lo Stato ebraico. Gli obiettivi d’Israele sono: liberare i soldati e disarmare Hezbollah, sradicarlo dal sud del Libano, dove è insediato, così da rendere sicuro il confine israelo-libanese. Alla data della cessazione dei bombardamenti (14.8.06) questi obiettivi non sono stati raggiunti: Hezbollah è ancora in piedi e i due soldati prigionieri non sono stati liberati. In cambio sono morti circa 1150 civili, quasi tutti libanesi, e 650 militari, 530 dei quali hezbollah, più oltre 4000 feriti e, inoltre, ci sono un milione di sfollati, in maggioranza libanesi, senza contare i danni materiali alle cose (edifici, infrastrutture, servizi), che sono ingenti.
La risoluzione n. 1701 dell’Onu arriva tardi e non scioglie i nodi della questione: la risposta eccessiva di Israele in rapporto alla provocazione subita non viene condannata, bensì giustificata secondo il principio di “autodifesa”, e si afferma il diritto d’Israele a riprendere le ostilità in caso di nuove provocazioni. Il messaggio è chiaro: Israele deve poter vivere in pace all’interno del proprio territorio e non deve essere fatto oggetto di minacce esterne. È come dire agli arabi che essi devono riconoscere lo stato d’Israele e lasciarlo in pace. Ma è proprio questo il motivo della loro guerra: Hezbollah e molti altri arabi sono sul piede di guerra da quasi un secolo perché non accettano di essere stati sfrattati dal loro territorio e di essere stati depredati della loro patria dalla politica sionista degli ebrei. A queste rivendicazioni mancano risposte, chiare ed eque, da parte dell’Onu. E qui sta il nodo irrisolto della questione.
Nel giugno 2007 le divergenze sulla politica estera da parte di Hamas e di Fatah portano sull’orlo della guerra civile nella Striscia di Gaza. Il più forte sul campo risulta essere ancora una volta Hamas, ma gli Usa rispondono con una politica tesa a potenziare Fatah e indebolire Hamas, una politica, dunque, contraria alla volontà degli elettori che, liberamente, avevano preferito Hamas. In questo caso, i principî della democrazia e del rispetto della sovranità popolare sono stati disattesi proprio dal quel paese, che si propone al mondo come il simbolo della democrazia stessa. Il fatto di dover rinunciare alla propria coerenza ideologica è certamente di un segno di debolezza e non depone a favore degli Usa.

17.1. La questione palestinese
Come andrà a finire la storia di questa terra martoriata che è la Palestina? Se nel mondo dominasse la giustizia, gli ebrei dovrebbero essere tenuti innanzitutto a riconoscere senza indugio ai palestinesi il diritto ad avere uno Stato e, in secondo luogo, a rispondere per il male che hanno fatto a quella popolazione, per esempio pagando un affitto per il territorio che occupano e risarcendo le famiglie delle vittime della loro azione di conquista. Se, invece, è vero che nel mondo domina la legge del più forte, allora non è difficile prevedere che, alla fine, prevarranno gli ebrei, i quali si affermeranno come la potenza egemone in Palestina e imporranno la loro superiorità militare ed economica alla popolazione araba indigena, che dovrà scegliere fra integrarsi oppure rassegnarsi a vivere come cittadini di secondo livello. È l’eterno destino del perdente, di chi viene soggiogato e sottomesso.
Rimarrebbe, in ogni caso, una storia unica nel suo genere, in grado di suscitare interrogativi profondi e di aprire nuovi scenari nel panorama internazionale. Il principale interrogativo è se il mondo dovrà continuare a reggersi su rapporti di forza oppure se c’è spazio per sperare di realizzare un sistema mondiale fondato su principî di giustizia. Se quello che conta è la forza, come si può porre fine al prevedibile, legittimo desiderio di ogni popolo di armarsi, almeno quel che basta a potersi difendere da ogni possibile minaccia esterna ed evitare il rischio di fare la fine dei palestinesi? Ma, se un popolo è dotato di armi così potenti da non dover temere di essere attaccato, chi può garantire che, prima o poi, esso userà le sue armi per evitare che un altro popolo gli stia alla pari? E come può essere soddisfatto il bisogno di sicurezza della gente in un mondo in cui alcuni paesi dispongono di armi di distruzione di massa, altri aspirano a possederle per non essere da meno, altri ancora sono troppo impegnati a soddisfare i bisogni primari per poter esprimere una volontà di potenza?
Se, invece, quello che conta è la giustizia, tutti questi arsenali di morte non avrebbero alcun senso, così come non avrebbe senso una storia come quella del sionismo. In un mondo giusto, gli ebrei avrebbero potuto vivere in pace in qualunque angolo della terra, nel pieno rispetto dei loro diritti, come si conviene nei confronti di qualsiasi persona e di qualsiasi minoranza. Se gli ebrei hanno avvertito il bisogno di avere uno Stato proprio, ciò è dovuto al fatto che sono stati calpestati nei loro diritti e sono stati fatti oggetto di persecuzione e di sterminio. Essi avevano (e hanno) tutte le ragioni di esigere di essere rispettati, ovunque nel mondo, ma non quello di conquistare questo diritto con la forza, negandolo ad un altro popolo.

17.2. La Promessa
Gli ebrei si sono dati un governo di tipo democratico che, paradossalmente, non è disposto a riconoscere la parità dei diritti a chi non rispetta la religione ebraica. In un certo senso l’Israele ebraico, nonostante la sua proclamazione di democraticità, rimane ancora uno Stato di tipo sacerdotale. Gli Ebrei di oggi pensano ancora alla Promessa? Probabilmente si, dal momento che la loro religione è fondata su di essa. Ma si aspettano ancora la rivincita sui loro nemici e il dominio sulla terra, oppure si accontentano di avere uno Stato al pari di tanti altri popoli? È difficile dirlo. Probabilmente oggi la maggioranza non interpreta più la Promessa nel modo tradizionale e si sentirebbe paga se potesse vivere pacificamente in uno Stato tutto proprio, ma non ci sarebbe da sorprendersi se qualcuno continuasse a sognare il dominio sul mondo. D’altra parte, che senso avrebbe la Promessa di Jahve, se poi gli Ebrei devono vivere al pari degli altri? E, svuotata della Promessa, che senso resterebbe alla religione ebraica?

17.3. Chi è ebreo?
Oggi la Palestina conta circa 6.300.000 di abitanti, l’80% dei quali ebrei, il 20% arabi e cristiani. Si tratta comunque di uno Stato anomalo. Esso, infatti, accoglie gruppi provenienti da ogni parte del mondo, divisi per storia e cultura, e accomunati solo sotto il profilo religioso. Gli ebrei d’Israele non costituiscono una razza, non sono un gruppo etnico, né una nazione, né un popolo; sono, piuttosto, i seguaci di una dottrina religiosa. Il loro dovrebbe essere, dunque, uno Stato confessionale, anche se, sulla carta, esso risulta essere una repubblica democratica e liberale.
Che cos’è, dunque, lo Stato d’Israele? Se è uno Stato religioso, allora dovrebbe accogliere tutti coloro che aderiscono alla sua religione e, di fatto, sarebbe l’unico Stato al mondo con queste caratteristiche. In questo caso, esso potrebbe costituire un precedente per la fondazione di altre analoghe realtà: uno Stato luterano, uno buddista, uno musulmano, e via dicendo. Se, invece, è uno Stato laico, perché esso apre le porte solo agli ebrei? Chi sono, in fondo, questi ebrei? Per Hitler è ebreo chi ha almeno un nonno ebreo. Secondo la Conferenza centrale dei rabbini americani, dev’essere considerato ebreo anche il figlio di una coppia mista (1983). Nessuno dubita che il figlio di entrambi i genitori ebrei sia ebreo. Ma l’essere ebreo è una questione genetica o culturale? Il figlio di una coppia di neri è sicuramente un nero, anche se non lo vuole. Ma il figlio di ebrei può dirsi ebreo, se non accetta la religione ebraica? E se un non-nato da ebrei fa propria la cultura ebraica, perché non può dirsi ebreo?

16. I tedeschi

Sconfitto alle elezioni del 1998, Kohl deve subire un’irreparabile caduta d’immagine per il coinvolgimento nell’inchiesta giudiziaria sui fondi neri della CDU (1999), che si conclude, due anni dopo, con un’ammenda.
Sul piano internazionale, la politica del nuovo cancelliere, il socialdemocratico Gerhard Schröder (1998-2005), punta a difendere l’immagine di una Germania indipendente e con un proprio ruolo specifico, non subordinato ad alcuna superpotenza. Così, mentre, dopo l’attentato terroristico dell’11 settembre, egli non esita a schierarsi a fianco degli Stati Uniti e giustifica l’azione armata contro le organizzazioni terroristiche in Afghanistan (2001), si dissocia da quella che considera un’aggressione unilaterale ingiustificata di Bush nei confronti dell’Iraq (2003). Investito da un calo di popolarità, legato all’insuccesso della sua politica in campo economico e sociale, Schröder decide di chiamare i tedeschi ad elezioni anticipate (18.9.2005), che danno una vittoria di misura (35,2% contro 34,3%) al CDU di Angela Merkel (2005). Dal momento che nessuno dei due può contare su una maggioranza sufficiente per governare, alla fine si accordano sulla seguente soluzione di compromesso: Angela Merkel guiderà una “Grosse Koalition” di unità nazionale e sarà il primo cancelliere donna nella storia della Germania; in cambio della rinuncia alla cancelleria da parte di Gerhard Schröder, i socialdemocratici otterranno otto ministeri, tra cui quello degli esteri, la CDU solo sei.

15. I paesi comunisti europei

Fra i paesi comunisti europei, particolare è la situazione della Iugoslavia, che è uno Stato federale in cui convivono diverse etnie, che in passato sono state in guerra fra loro e che sono tenute insieme dalla figura carismatica di Tito, il quale, unico fra i leader comunisti europei, ha deciso di distaccarsi dal modello europeo e avviare l’originale sistema economico dell’autogestione. Nel 1990 in Croazia e Slovenia le elezioni sono vinte dai nazionalisti, che proclamano l’indipendenza delle due repubbliche (1991). Al loro interno vive una minoranza d’origine serba, le cui rivendicazioni d’indipendenza sono fomentate dal leader nazionalista della Repubblica serba, Slobodan Milosevic, e portano allo scoppio di una guerra civile (1991). Sul finire del 1991 anche la Macedonia proclama la propria indipendenza, seguita, il 9.1.1992, dalla Bosnia-Erzegovina.
La Serbia, che insieme al Montenegro si è costituita nella nuova repubblica federale di Iugoslavia, inizia una politica egemonica, che è tesa all’annessione dei paesi vicini, all’interno dei quali vivono popolazioni serbe, e compie veri e propri massacri ai danni di intere popolazioni (pulizia etnica). ONU e NATO intervengono e sottopongono i serbi a bombardamenti, che portano alla pace, nel 1995. Quattro anni dopo i serbi rispondono con la repressione alle istanze indipendentiste della maggioranza albanese insediata nel Kosovo e, ancora una volta, vengono sottoposti agli attacchi aerei delle forze NATO (1999). Alla fine Milosevic viene arrestato e condotto di fronte al tribunale penale internazionale dell’Aia per esservi processato (2001).

14. Gli spagnoli

La crescita economica della Spagna è tale da renderla idonea ad entrare nell’area dell’euro (1998). Sotto il governo di José Maria Aznar (1996-2004), uomo di destra, la Spagna vuole giocare un ruolo di primo piano a livello internazionale e si schiera a fianco degli Stati Uniti nelle guerra contro l’Iraq (2003), ma, a seguito degli attentati terroristici di Madrid (11.3.2004), Aznar accusa un forte calo del consenso popolare e deve lasciare il posto al socialista José Luis Rodríguez Zapatero (17.4.2004), che ritira le truppe spagnole dall’Iraq e s’impegna in una coraggiosa politica tutta orientata alle questioni interne del paese e poco incline a svolgere un ruolo importante nel panorama internazionale. Parità fra i sessi (metà dei ministri parlamentari sono donne), legalizzazione dei matrimoni omosessuali, equiparazione delle coppie di fatto a quelle sposate, snellimento della procedura per ottenere il divorzio, liberalizzazione della fecondazione assistita, apertura alla clonazione terapeutica e all’uso di cellule staminali di origine embrionale al fine della ricerca scientifica, tali sono le iniziative del governo Zapatero, che in più punti sfida le posizioni del Vaticano. Zapatero non potrebbe resistere a lungo all’opposizione della Chiesa se alle misure adottate in campo etico non si accompagnassero buoni risultati sul piano economico e, in effetti, l’economia del paese cresce e la disoccupazione diminuisce. Il governo Zapatero dunque resiste e non solo si distingue agli occhi del mondo per la sua attenzione ai diritti civili, per la sua laicità e per il suo progressismo, ma viene anche apprezzato all’interno, dove, alle elezioni nazionali del 9 marzo 2008, viene riconfermato al potere col 44% dei consensi. Il successo di Zapatero è particolarmente rimarchevole se si pensa al fatto che esso è stato conseguito nonostante l’opposizione della Chiesa e contro la regola che vede generalmente perdenti i governi in carica.

13. I francesi

Nel 1995 viene eletto alla presidenza Jacques Chirac, che si impegna a portare avanti una politica conservatrice e di destra, orientata a interpretare il ruolo di primo piano della Francia in Europa e, nello stesso tempo, a difendere la sua autonomia nel confronti degli Stati Uniti. Il dopo-Chirac si chiama Nicolas Sarkozy (n. 1955). Figlio di un aristocratico ungherese naturalizzato francese, Sarkozy viene eletto con poco più del 53% dei voti ed è il 23.mo Presidente della Repubblica francese (16.5.2007). La sua politica rimane orientata a “destra”, come quella del suo predecessore, ma assume toni più accomodanti con gli Stati Uniti.

12. Gli inglesi

La situazione sociale in Gran Bretagna non cambia sotto il governo di John Major (1990-4), che non viene riconfermato, a favore del laburista Tony Blair (1997-2007), che pone termine a diciotto anni di governi conservatori. La politica estera di Blair si caratterizza per la sua fedele alleanza con gli USA e per la sua partecipazione alle guerre in Kosovo (1999), in Afghanistan (2001) e in Iraq (2003). Gli succede un altro membro del partito laburista, Gordon Brown (23 giugno 2007), che fino allora ha ricoperto la carica di Cancelliere dello Scacchiere (equivalente a Ministro dell’Economia), con risultati lusinghieri.

11. Il caso Corea del Nord

Dopo aver dichiarato al mondo di far parte del club atomico, la Corea accetta di smantellare il suo arsenale nucleare (12.2.2007) in cambio di consistenti benefici economici. Il caso conferma la validità del principio di forza anche ai nostri giorni. Mostrare i muscoli paga. Ma non si sa fino a che punto.
Due anni dopo (maggio 2009), infatti, la Corea ci riprova a mostrare i denti. Riprende cioè a lanciare razzi in faccia al mondo per provocarlo e indurlo a nuove concessioni.

10. I giapponesi

Nuovi scandali colpiscono il mondo politico nel 1993, costringendo alle dimissioni il governo e a consultazioni anticipate. Alla guida di una coalizione di sette partiti viene nominato primo ministro Morihiro Hosokawa del Partito della rinascita, che è indotto a dimettersi sotto l’accusa di corruzione. Nel 1996 un nuovo scandalo finanziario coinvolge ben 17 delle 21 banche principali e trascina con sé il primo ministro in carica. Dopo l’attacco alle Torri gemelle (2001), il Giappone affianca gli USA nella guerra al terrorismo. Oggi il Giappone è l’unico paese al mondo che riconosce la figura di un imperatore.

09. I cinesi

L’ingresso della Cina nel WTO (2001) denota la volontà di questo paese di accettare lo spirito capitalistico. Purtroppo, permane ancora il ritardo nelle conquiste democratiche. A differenza dell’India, la Cina non è un paese democratico, ma ha un’alfabetizzazione e una ricchezza media pro capite maggiori, soprattutto nelle regioni orientali. Arretrate e povere sono invece le regioni occidentali, che ricordano, esse sì, l’India. “Oggi la vera signora dell’Oriente è la Cina” (Khanna 2009: 119).

08. Gli indiani

Qui ignoranza e indigenza si oppongono alla libertà economica. “E senza alcuna libertà economica è molto difficile per gli indiani godere di qualche altra forma di libertà” (Khanna 2009: 367).

07. I sovietici

Il brusco cambiamento di politica non è accettabile dalle forze conservatrici del paese, che organizzano un colpo di Stato (fallito) e alimentano le tensioni sociali, che sono già elevate a causa di ulteriori spinte indipendentiste e lotte interetniche, che dilaniano il paese. Tutto ciò accelera il processo di disfacimento dell’URSS, che porta alla nascita di un nuovo soggetto politico, la Comunità di Stati indipendenti o CSI (1991), in cui la Russia continuerà ad esercitare un ruolo di preminenza, avendo ereditato dall’URSS il seggio all’ONU e l’85% dell’arsenale nucleare. La CSI comprende quindici nuovi Stati, che non costituiscono delle semplici unità politiche nazionali, quanto piuttosto delle entità multietniche, all’interno delle quali esistono minoranze che aspirano all’indipendenza, le quali, a loro volta, devono fare i conti con sub-minoranze, che perseguono lo stesso obiettivo, “come in un sistema di scatole cinesi” (GUARRACINO 1997: 219). Vladimir Putin, che è eletto a capo del governo in Russia (2000), si trova a doversi destreggiare fra la tendenza ad aprirsi alla democrazia liberale occidentale e alla necessità di contenere la crisi economica interna, la corruzione delle istituzioni e i movimenti separatisti, come quello ceceno, che non esitano a ricorrere ad azioni terroristiche. Viene riconfermato in carica nelle elezioni del 14 marzo 2004, ma, essendo impossibilitato dalle norme costituzionali ad un terzo mandato, nel 2008 favorisce la vittoria del suo delfino Dmitrij Medvedev (1965).
Identici, secondo Parag Khanna, i problemi e la linea politica del successore di Putin. Questo barcamenarsi barcamenarsi fra problemi interni e desiderio di attuare una politica estera di primo piano fa sì che “La Russia resta il più grande rebus del mondo” (Khanna 2009: 45).

06. Gli americani

Frenato dalla maggioranza repubblicana del Congresso dove riesce in parte il democratico William Clinton (1993-2001) si dedica prevalentemente alla politica internazionale. In politica interna, tra i principali obiettivi di Clinton c’è quello di arginare l’enorme deficit accumulato negli anni precedenti, anche grazie alla riduzione delle spese militari, ridurre il deficit annuo fino a raggiungere il pareggio di bilancio, e poiché egli non vuole aumentare le tasse ai ricchi, né ridurre le spese militari, non gli rimane che sacrificare la spesa sociale. Anche per Clinton lo Stato non deve assumersi la responsabilità di occuparsi delle persone incapaci di badare a se stesse, ma deve favorire i ricchi e gli interessi degli americano nel mondo, attraverso una politica di forza. Gli stessi diritti umani vengono al secondo posto rispetto al profitto economico, col risultato che l’uno per cento della nazione possiede il trenta per cento della ricchezza e costituisce una sorta di sfera sacra (ZINN 2007: 447-9). Il restante novantanove per cento è costituito dai comuni cittadini, che sono distribuiti in varie classi sociali, dai facoltosi proprietari e professionisti (la cosiddetta classe media) ai salariati, sottoccupati e disoccupati, che sono gli uni contro gli altri. Paga della propria condizione e soddisfatta del sistema politico vigente, la classe media disapprova sia un’eventuale politica sociale, sia eventuali rivendicazioni delle classi infime, che ritengono ingiuste e destabilizzanti. Alla fine, è proprio il consenso della classe media ad assicurare la stabilità del sistema politico e a sostenere la sfera sacra dell’establishment sociale. “Se cessano di obbedire, il sistema cade” (ZINN 2007: 461).
Dopo gli otto anni della presidenza Clinton, che trascorrono senza particolari sussulti, è G.W. Bush, figlio di George, a prevalere sul democratico Albert Gore e a diventare il 43° presidente degli Stati Uniti (gennaio 2001).

06.1. La dinastia Bush
I Bush si affermano, nell’arco di quattro generazioni, come una famiglia “composta quasi esclusivamente da imprenditori finanziari” (PHILLIPS 2004: 60), impegnati principalmente nel settore petrolifero, senza disdegnare, tuttavia, quello della produzione e del commercio di armi d’ogni tipo (ivi: 232) e, perfino, la partecipazione ad operazioni finanziarie clandestine e riciclaggio di denaro (ivi: 338).
Il capostipite può essere considerato Prescott Bush (1895-1972), un facoltoso finanziere che, grazie al matrimonio con la ricca ereditiera, Doroty Walker (1921), s’imparenta con una famiglia di rango superiore e rafforza la propria posizione economica. Decide quindi di entrare in politica e, dopo due tentativi infruttuosi, diventa senatore (1952). George Bush (n. 1924), uno dei cinque figli di Prescott, è determinato a seguire le orme del padre e, dopo avere operato in compagnie petrolifere, intraprende la carriera politica. Nominato ambasciatore ONU (1970), poi direttore della CIA (1976-80), quindi vice-presidente di Reagan (1981-88), viene eletto 41° presidente degli Stati Uniti (1989-92). Durante questi anni riesce “a far guadagnare ai fratelli e ai figli milioni di dollari” (KELLEY 2005: 351). Battuto da Bill Clinton, si ritira dalla politica attiva, pur continuando a sostenere quella del figlio George Walker (n. 1946). Dopo aver, in qualche modo, evitato il doveroso servizio militare in Vietnam e dopo essersi laureato in storia, G.W. Bush inizia un’attività imprenditoriale nel settore petrolifero, poi acquista la comproprietà della popolarissima squadra di baseball dei Texas Rangers (1989-94), e ciò gli vale l’elezione a governatore del Texas (1994). Candidato repubblicano alle presidenziali del 2000, consegue una risicata vittoria sul democratico Albert Gore, vicepresidente uscente.
Ciò che caratterizza entrambe le presidenze Bush è il perseguimento degli affari di famiglia attraverso una politica, che qualcuno definisce “capitalismo nepotistico” (PHILLIPS 2004: 166).

G.W. Bush si presenta con un programma conservatore, che prevede, sul piano interno, la riduzione delle tasse, il contenimento dello stato sociale, la privatizzazione della scuola, la sicurezza del paese e un maggior rigore della giustizia; a livello internazionale, il rilancio del progetto “scudo spaziale”, il disimpegno dal processo di pace in Palestina e il pieno sostegno alla causa di Israele. L’11 settembre dello stesso anno un evento eccezionale e drammatico scuote il mondo: l’organizzazione terroristica Al Qaeda, che fa capo allo sceicco saudita Osama Bin Laden, inferisce agli USA una ferita mortale mandando tre aerei di linea a schiantarsi contro le Torri Gemelle di New York e il Pentagono e causando circa tre mila vittime civili. L’attacco è di tale portata da far sentire gli americani in pericolo e indurli a ridefinire il presente e ripensare al futuro, in funzione del nuovo nemico, il terrorismo, e la risposta è duplice: una a breve termine, che consiste nell’aumento della spesa militare, che passa da 296 miliardi di dollari nel 2001 a 329 nel 2002 e 365 nel 2003 , una nel tempo medio-lungo, che consiste nel rilancio del progetto reaganiano dello scudo spaziale (DINUCCI 2003: 173). Il secondo paese per spesa militare è il Giappone, con 46,7 miliardi nel 2002, seguito da Gran Bretagna, Francia, Cina, Germania, Arabia Saudita, Italia, Iran, Corea del Sud, India, Russia, Turchia, Brasile, Israele. Ma tutti questi paesi, messi assieme, spendono meno degli USA!
Intanto Bush, non potendo tollerare che il terrorismo possa impunemente colpire i civili americani nel cuore stesso dell’America, elabora una ideologia anti-terroristica che, da un lato, rivendica implicitamente la superiorità assoluta della cultura occidentale, dall’altro condanna senza mezzi termini il terrorismo, bollandolo sul piano etico, dal momento che le sue azioni sono organizzate nella clandestinità e perpetrate ignominiosamente contro bersagli civili. Agli occhi di Bush e dei suoi alleati il terrorismo diventa il male assoluto e tutti gli Stati che lo alimentano, lo sostengono o non lo combattono, sono definiti Stati-canaglia, personificazione del male, che meritano di essere annientati per il bene del mondo. Da qui alla dichiarazione di guerra il passo è breve. Ma guerra a chi, dato che i terroristi non hanno uno Stato proprio? Guerra ai loro sostenitori. Si comincia a bombardare l’Afghanistan (2001), che è sotto il governo dei Talebani, considerati complici di Osama Bin Laden.
Nel 2002 Bush comincia a rilanciare l’idea di un efficiente sistema antimissile, che restituirebbe agli USA quel primato che essi hanno perso nel 1949. Grazie a questo “scudo”, gli americani potrebbero lanciare i loro missili nucleari contro chiunque senza il rischio di essere colpiti da alcuno. Come gestirebbero questo eventuale nuovo monopolio della forza non è dato saperlo, ma non è detto che, anche questa volta, essi lascerebbero gli altri paesi liberi di colmare il gap. Per il momento il progetto “scudo spaziale” avanza in segreto e a passi lenti, e non sembra un obiettivo a tempi brevi. Continua invece la lotta senza quartiere contro l’impero del male. Questa volta nel mirino è l’Iraq di Saddam Hussein, che viene accusato dagli americani di regime autoritario e violento e sospettato di possedere armi di distruzione di massa, oltre che di complicità con Al Qaeda. Bush non si stanca di ripetere: “dobbiamo attaccare perché l’Iraq e al Qaeda sono legati e Saddam ha arsenali di armi di distruzioni di massa che potrebbe mettere a disposizione delle organizzazioni terroristiche” (PHILLIPS 2004: 389). Se il dittatore iracheno non lascia il potere o non permette la verifica dei suoi armamenti da parte di ispettori ONU –insiste Bush– verrà cacciato con la forza e i suoi arsenali distrutti.
Nonostante che Saddam non si opponga all’ingresso degli ispettori e nonostante l’esito negativo delle ispezioni e il parere contrario dell’ONU, Bush continua a credere che le armi siano semplicemente nascoste e, con la partecipazione degli inglesi, dà inizio alla guerra contro l’Iraq (19.3.2003). Gli scopi dichiarati della guerra sono la sostituzione di un regime dittatoriale con uno democratico, lo smantellamento delle armi di distruzione di massa e un duro colpo alla rete terroristica di Bin Laden. La guerra si conclude in poco più di un mese con la vittoria americana e la fuga di Saddam, che verrà poi catturato, processato e giustiziato. Le armi di distruzione di massa non possono essere smantellate semplicemente perché non ci sono, né si trovano prove a favore di un appoggio di Saddam al terrorismo di Al Quaeda. Una guerra inutile, dunque? Molti ne sono convinti, ma Bush continua a difendere il proprio operato: indica come il migliore possibile per l’America e invita gli americani a confermargli la propria fiducia.
Bush pensa ormai alle prossime elezioni ed è sicuro che il popolo americano non abbandonerà il proprio presidente, mentre è impegnato a difendere l’America dalla minaccia del terrorismo. I risultati elettorali del 2004 gli danno la vittoria e potrà governare l’America ancora per quattro anni. Intanto, nel gennaio 2005, gli iracheni sono chiamati alle urne per eleggere un governo rappresentativo, mentre il paese è ancora occupato dagli americani e dai loro alleati, e in preda al disordine e alla violenza. L’evento viene, comunque, raccontato dai mass media come una vittoria della democrazia.
Le due guerre non hanno arrestato il terrorismo, che continua a colpire duramente: a Madrid vengono presi di mira simultaneamente quattro treni di pendolari, provocando circa 200 morti (11.3.2004), a Londra esplodono bombe nella metropolitana, che causano una cinquantina di morti e centinaia di feriti (7.7.2005), a Sharm el Sheikh attacchi esplosivi contro hotel e bazar determinano un centinaio di morti (23.7.05). La già poco felice posizione di Bush è aggravata dal cosiddetto scandalo Cia-gate (ottobre 2005), ovverosia il sospetto che la notizia circa la disponibilità di armi di distruzioni di massa e la complicità con Al Qaeda da parte di Saddam sia stata solo un pretesto architettato al fine di giustificare la guerra contro l’Iraq, e dalla scoperta che gli americani abbiano usato fosforo bianco (arma proibita) nella battaglia di Falluja contro i terroristi iracheni (2004).
A fronte dei cospicui stanziamenti economici finalizzati a sostenere azioni militari pretestuose ed evitabili, non si reperiscono le risorse necessarie per un’adeguata politica di welfare. L’esempio più lampante, che ha scosso gli Stati Uniti, è rappresentato dal veto di Bush ad una legge approvata con voto bipartisan, che prevede l’erogazione di fondi per l’assistenza sanitaria ai bambini americani a basso reddito (ottobre 2007). È davvero sorprendente che la prima Potenza economica e militare al mondo non sia in grado di garantire la salute dei suoi cittadini. Però così è, e questo va interpretato come un segno di debolezza. Come dire: la forza militare e l’aspetto esteriore di grandezza, nascondono una realtà interna ben più modesta e dimessa, che è fatta di sofferenze e di rinunce per molti cittadini americani.

06.2. Terrorismo
Secondo Antonio Cassese, “in base al diritto internazionale, è terrorista chiunque (1) commetta un’azione criminosa (omicidio, strage, dirottamento di aerei, sequestro di persone, attentato dinamitardo contro edifici e così via) contro civili (o anche militari, sempreché non impegnati in azioni belliche); (2) allo scopo di coartare un governo, un’Organizzazione internazionale o un’entità non statale (ad esempio, una società multinazionale) diffondendo il terrore nella popolazione civile o con altre azioni; (3) per una motivazione politica o ideologica” (CASSESE 2005: 195-6). Con parole nostre, definiamo atto terroristico un’azione violenta, ad elevata carica emotiva, perpetrata a danno di strutture altamente simboliche o persone ignare e non direttamente partecipanti ad alcuna forma di lotta armata, e condotta in modo lucido e pianificato, talvolta preannunciata e sempre rivendicata, da parte di gruppi organizzati , con l’intento di seminare terrore all’interno di una popolazione, sì da indebolire il suo sistema politico e indurla a piegarsi alla volontà dell’aggressore, quale che essa sia. In realtà, esiste anche un T. individuale, come quello di Unabomber, che opera in Italia a partire dagli anni Ottanta, ma che, tuttavia, non riveste alcun significato politico, dal momento che l’azione di un individuo isolato merita di essere considerata come sintomo di malattia mentale.
Si possono distinguere due principali forme di T. politico: quella perpetrata dai governi legittimi contro nemici politici o minoranze ritenuti, in qualche modo, meritevoli di essere combattuti e/o elimitati, che possiamo definire T. di Stato; e quella attuata da gruppi minoritari nei confronti di uno Stato ritenuto oppressivo, che possiamo chiamare T. propriamente detto. Il T. di Stato è abituale negli avvicendamenti al potere politico, che fanno seguito a lotte armate, laddove il gruppo vincente si preoccupa per prima cosa di eliminare i propri nemici e di rendere stabile la propria posizione di comando. Ne sono esempi la dittatura giacobina, il totalitarismo staliniano e il genocidio dei cambogiani da parte dei khmer rossi di Pol Pot. La seconda forma di T. è quella messa in atto da parte di gruppi minoritari che mal sopportano di essere condizionati da una potenza superiore o non si rassegnano a rimanere esclusi dal potere politico. Questi gruppi possono appartenere allo stesso Stato (com’è il caso dei marxisti russi sotto il regime zarista, delle Brigate Rosse in Italia, dell’Esercito Rosso in Giappone, dei Tupamaros in Uruguay, di Sendero Luminoso in Perù, dei movimenti nazionalisti o indipendentisti irlandesi, israeliani, algerini, sudtirolesi, baschi) o a Stati diversi (com’è il caso dei ceceni, che aspirano all’indipendenza dalla Russia, dei palestinesi, che non vogliono lasciare le loro terre agli ebrei, dell’Islam, che non vuole cedere ai valori occidentali).
In questo secondo caso, la disparità delle forze sul campo è tale che un eventuale scontro in campo aperto non consentirebbe alcuna probabilità di successo per il gruppo minoritario, il quale, pertanto, si vede costretto a ripiegare a forme non convenzionali di lotta, che chiamiamo T. I ceceni, i palestinesi e i musulmani, non avendo alcuna ragionevole speranza di affermazione contro le forze abissalmente preponderanti di russi, israeliani e americani, e, tuttavia, volendo difendere la propria indipendenza o imporre i propri interessi, attuano azioni violente, subdole e infami, puntando su bersagli abbordabili, ma scelti con cura, allo scopo di ottenere il massimo danno possibile, anche sul piano psicologico, con il minimo sforzo. Un mercato nell’ora di punta, una chiesa, un teatro o uno stadio affollati, un treno o una metropolitana, un luogo turistico molto frequentato, un grattacielo con migliaia di residenti, costituiscono gli obiettivi preferiti dai terroristi. Un unico attacco, ben coordinato e improvviso, condotto anche da una sola persona, può provocare una strage con decine di morti e centinaia di feriti, seminare il panico nella popolazione, indurre lo Stato ad elevare il livello di allerta e ad incrementare i controlli e le misure di sicurezza, anche se ciò non sempre è sufficiente per rassicurare la gente.
Talvolta, il livello emotivo che si raggiunge fra la popolazione di una potente nazione, che sia stata aggredita e ferita nel suo orgoglio dall’attacco suicida di pochi miserabili, può essere tale da indurla a mobilitare le forze armate e a scatenare una guerra, ma c’è un problema: il nemico terrorista non è ben visibile e non risiede in un luogo preciso. Il più imponente apparato militare, gli ordigni bellici più micidiali nulla possono contro un nemico che si nasconde, che si infiltra nella popolazione civile e nei luoghi più disparati, che può colpire in qualsiasi momento e nel modo più imprevedibile. Il risultato è che la grande potenza deve dirottare consistenti capitali di denaro per sostenere una guerra che non riesce a sconfiggere il T. o, comunque, non può mai essere sicura di averlo debellato definitivamente. Col passare del tempo la popolazione comincia ad avvertire un senso di stanchezza e di frustrazione, e mal sopporta il sacrificio economico necessario per sostenere uno stato di guerra che non sembra essere in grado di risolvere il problema in modo rapido e radicale. Al clima di paura e di insicurezza si aggiunge un senso di impotenza e disagio, che si risolve, infine, nel crollo della fiducia nelle istituzioni da parte dei cittadini. In altri termini, si determinano le condizioni per l’indebolimento dello Stato e per la richiesta di un cambiamento politico da parte delle masse, che in fondo è quello che vogliono i terroristi. E poi?
Se è difficile per gli Stati liberarsi della piaga terroristica, non è facile per i terroristi raggiungere i loro obiettivi, se non altro a causa della netta inferiorità delle loro forze. Ma cosa succederebbe se ciò accadesse? Cosa succederebbe se delle Brigate redivive, Rosse o Bianche, riuscissero a far cadere il governo italiano o dei terroristi islamici abbattessero la potenza americana? Si accontenterebbero di essersi liberati dal nemico che li opprimeva, o cercherebbero di sostituirsi ad esso nella posizione di comando? Potrebbero fare entrambe le cose insieme o in successione di tempo: prima abbattere il sistema, poi sostituirlo. Tuttavia, nel caso in cui delle Brigate di qualsivoglia colore riuscissero a conquistare con la forza il potere politico in un qualsiasi paese, la storia non potrebbe che ripetersi. La loro azione, infatti, non sarebbe molto diversa dalla conquista armata di un paese da parte di un altro paese, o del rovesciamento di una dinastia da parte di un’altra dinastia. Come ci insegna la storia, dopo che un gruppo ha conquistato il potere con la forza, di norma si adopera per consolidare la propria posizione e renderla stabile, ma è improbabile che ciò avvenga col consenso di tutti, e così si formeranno altri gruppi minoritari, portatori di valori diversi, delle Brigate Nere o Gialle disposte a ricorrere al terrorismo allo scopo di abbattere e sostituire il potere costituito. La storia si ripeterebbe, e sarebbe la solita storia, quella che si basa su rapporti di forza, dove ha ragione chi vince e chi perde ha torto e dove non c’è posto per la giustizia.

Il 4 novembre 2008 l’afroamericano Barack Obama, democratico di 47 anni, viene eletto alla Casa Bianca con una larga maggioranza di consensi, imponendosi sul repubblicano McCain e facendo registrare quello che viene registrato come un evento epocale. Sino ad un anno prima, infatti, sembrava inimmaginabile che un uomo di colore diventasse presidente degli Stati Uniti. Evidentemente il bilancio della politica Bush è sembrato agli americani così fallimentare da indurli a riporre le loro speranze sull’uomo che meglio incarnava il desiderio di cambiamento. Ora, benché possa contare su una discreta maggioranza democratica in Camera e Senato, il neo-presidente si viene a trovare di fronte ad un compito tra i più difficili: un paese in piena recessione economica, con una povertà e un debito pubblico in aumento, e un quadro internazionale delicato e fluido, specie in Iraq. Le aspettative che il mondo intero ripone su di lui sono molto alte e ciò contribuisce a rendere il suo compito ancora più arduo.
Oggi, secondo Parag Khanna, gli Usa stanno cominciando a perdere il controllo del Sudamerica, che, grazie all’accorciamento delle distanze dovuto alla globalizzazione, sta intensificando i propri affari con la Cina (2009: 185). Non fa più presa nemmeno la causa della democrazia, che finora è stata “la maschera preferita dell’egemonia imperiale” statunitense (Khanna 2009: 183). Negli Usa, “la popolazione povera del paese tocca i quaranta milioni” (Khanna 2009: 430) e aumenta la distanza fra ricchi e poveri. “L’America è sempre meno la nazione della middle-class e sempre più quella combinazione di estremi tipica del Secondo Mondo” (Khanna 2009: 430). E in un paese con queste caratteristiche la democrazia soffre.

05. Un mondo duale

La crisi del modello comunista segna una cesura e ben ha fatto Eric J. Hobsbawm a fissare nel 1991 la fine del secolo XX e ad indicare quella data come l’inizio di una nuova era, che presenta profondi cambiamenti rispetto al passato e nuove sfide. Il vecchio dualismo Est-Ovest (Capitalismo/Socialismo, Denaro/Solidarietà) cede il passo al nuovo dualismo Nord/Sud (Paesi ricchi/Paesi poveri). Di fatto, il capitalismo rimane l’unica forza in campo e sembra ormai il dominatore incontrastato. Il Patto di Varsavia non sopravvive al disfacimento dell’URSS e, contemporaneamente, la NATO perde la sua funzione di scudo antisovietico e assume un nuovo ruolo, più generale, che ha a che fare con la difesa della pace nel mondo. Nella nuova veste essa può accogliere fra i suoi membri anche i paesi dell’ex Patto di Varsavia e intervenire nei Balcani (1994 e 1999) e in Afghanistan (2001). Nel maggio 2002 NATO e Russia firmano un accordo, in cui si impegnano a lottare congiuntamente contro il terrorismo, e ad adoperarsi nella gestione di eventuali crisi internazionali e per impedire la proliferazione della armi di distruzione di massa. Siamo veramente entrati in una nuova era, dove ora si confrontano due mondi: il Primo mondo, quello dei ricchi, a nord, il Secondo mondo, quello dei poveri, a sud.
Nel Primo Mondo la maggioranza dei lavoratori è impiegata nei settori secondario e terziario, che sono quelli della produzione industriale e dei servizi, ossia in ambiti non strettamente legati alla mera sopravvivenza, mentre i beni primari, che provengono dall’agricoltura e dall’allevamento sono gestiti con mentalità imprenditoriale. I beni alimentari abbondano e vengono presentati al pubblico in eleganti e pratiche confezioni, insieme a tanti altri prodotti industriali, ordinatamente disposti in apposite scaffalature, ben illuminate, all’interno di grandi centri commerciali, dove, quotidianamente, affluiscono i consumatori, richiamati dai loro bisogni certo, ma anche da una martellante pubblicità. La necessità vitale dell’industria, come quella del terziario, è di produrre, vendere e crescere. Al cittadino si chiede, pertanto, di abbandonare la sua vecchia mentalità di puntare al necessario per una decorosa sussistenza e lo si invita ad ampliare il suo orizzonte e a pretendere di più, a spendere tutto il suo denaro, e perfino ad indebitarsi, affinché l’industria possa vendere tutti i suoi prodotti e continuare a crescere, offrendo così nuovi posti di lavoro e incrementando la ricchezza del paese.
Il mondo del capitalismo è basato sull’idea di sviluppo illimitato e sull’incessante creazione di nuovi bisogni, dove quello che conta sopra ogni altra cosa è il profitto; ha successo chi guadagna di più, e guadagna di più chi vende di più. Ecco allora che la merce viene reclamizzata: bisogna vendere il più possibile, e sempre di più. Lo scopo della pubblicità non è quello di fornire sul singolo prodotto informazioni tecniche chiare ed obiettive, tese a consentirne un acquisto oculato, ma quello di suscitare nel cittadino una spinta emotiva e irrazionale, che lo induca al consumo fine a se stesso. Per il capitalismo è bene ciò che incrementa le vendite e favorisce gli scambi commerciali (mezzi di trasporto sempre più efficienti, internet, new economy), è male ciò che vi si oppone, compresi gli appelli a rispettare gli equilibri ecologici del pianeta.
La ricchezza è divenuta più importante di ogni altra cosa, perché coi soldi si può comprare non solo cibo e servizi, ma anche prestigio e potere, e ciò vale a livello tanto individuale che aziendale e di Stato. Così, il cittadino più ricco può assicurarsi servizi migliori e una migliore tutela giudiziaria, le maggiori aziende commerciali possono non solo esercitare un qualche controllo del potere politico e legislativo, ma anche condizionare la cultura e i costumi popolari, lo Stato più forte prevale sul più debole e il Primo mondo domina sul Secondo. Ma finché rimane operativa la legge del più forte, non si vede quali possibilità abbia la parte povera di far valere le proprie ragioni su quella ricca, la piccola impresa locale di competere con la grande azienda multinazionale o i paesi più arretrati di mettersi al passo dei più avanzati. Nel 1995 è stata istituita l’Organizzazione mondiale per il commercio (WTO). Lo scopo dichiarato era quello di garantire il libero mercato e promuovere la globalizzazione mondiale dell’economia, ma non quello di rimuovere i fattori di handicap e consentire una competizioni ad armi pari. Il risultato è stato che i più forti si arricchiscono sempre più, i più deboli arrancano.
Benché incisiva, l’immagine di un Nord ricco e di un Sud povero, oltre ad essere semplicistica, non è nemmeno del tutto esatta. Essa, infatti, non tiene conto che anche il Nord è afflitto dal fenomeno della povertà e della disoccupazione e che nel Sud non tutti sono poveri. Forse sarebbe meglio parlare di individui (e/o gruppi) ricchi e poveri, indipendentemente dalla sede dove essi risiedono, e costruire l’immagine di un pianeta diviso in due trasversalmente, un «Mondo duale», dove convivono, fianco a fianco, un piccolo numero di ricchi e sterminate masse di poveri, anche se si tratta di forme diverse di povertà. Nel Primo mondo la povertà non consiste tanto nella carenza dei mezzi di sussistenza, quanto nella condizione di chi, non avendo alcun potere contrattuale, è costretto ad accettare qualsiasi offerta di salario per poter sopravvivere, non è libero di esprimere il suo pensiero e deve subire ogni genere di umiliazioni per la paura di perdere quel poco che ha. Nel mondo capitalistico, il povero è colui che non può permettersi un’istruzione, che non ha la possibilità di coltivare il suo spirito, che non ha coscienza dei suoi diritti sociali e politici, o non è in grado di esercitarli. È il nuovo schiavo.
Il principale limite del capitalismo è la sua carenza di umanità, il suo disinteresse per i principî etici, la sua mancanza di valori spirituali profondi, la sua incapacità di mettere al centro del mondo l’uomo individuale coi suoi bisogni. Il capitalismo genera un clima altamente competitivo e spietato, che favorisce il gruppo più intraprendente e senza scrupoli, astuto e fortunato. Nello stesso tempo, suscita desideri illimitati e quindi infelicità, riduce la persona umana a semplice consumatore di beni materiali, si ispira alla legge del più forte e produce squilibri nelle società. Al di là di un apparente perbenismo e della presenza di un diritto garantista e uguale per tutti, i paesi capitalisti tollerano che molti loro cittadini abbiano a soffrire la carenza dei beni di prima necessità e dei servizi essenziali, che sono costretti a diventare essi stessi merce, corpi da prostituire, organi da vendere, uteri da affittare, bambini da manipolare e sfruttare. Nei confronti di questo Primo mondo l’Islam non prova attrazione e si tiene a debita distanza.
Il vero Secondo mondo è l’Islam. Non è un mondo propriamente povero, grazie al petrolio, ma è restio a farsi permeare dallo spirito capitalistico, che ritiene essere incompatibile con i valori della propria tradizione e con i princìpi espressi nel Corano. È un mondo che dispone già della bomba atomica (Pakistan e India) o che intende dotarsene (Iran) o che è in grado di costruirla (altri paesi), ma, soprattutto, è un mondo in cui singoli personaggi, particolarmente ricchi, possono finanziare un’organizzazione paramilitare finalizzata a difendere i valori e gli interessi dell’Islam dal pericolo occidentale, se non addirittura tentare di imporli. È il caso dello sceicco Osama Bin Laden e della sua rete terroristica, Al Qaeda. Il rischio che si profila è quello di uno scontro fra civiltà, che vede opposti il più forte Occidente cristiano al più debole, ma non arrendevole, mondo islamico. Il primo vuole esportare il suo modello capitalistico in tutto il pianeta, il secondo oppone resistenza al rischio di essere fagocitato e sviluppa un irriducibile fanatismo religioso che, unito ad una buona disponibilità di risorse e di armi, lo rende capace di organizzare azioni terroristiche a danno dei paesi occidentali, da molti considerati corrotti e moralmente degradati.
Se è vero che il terrorismo non può avanzare una propria candidatura al dominio del mondo, e sarebbe esecrabile che riuscisse in una simile impresa, è dubbio che ci riusciranno gli americani. Il modello che loro propongono sembra adatto solo per un impero, che dev’essere tenuto in piedi con la forza e dove un solo paese impone la sua egemonia sugli altri. È un modello che molti considerano ingiusto e, in quanto tale, indesiderabile. Forse è anche per questo che Eric J. Hobsbawm considera “scarse” le possibilità di successo a lungo termine di un impero mondiale americano (2002: 460). D’altra parte, se gli Stati Uniti decidessero di cambiare la loro politica e volessero elevare al proprio livello tutti gli altri popoli della terra, ne risulterebbe una situazione insostenibile, perché il pianeta non dispone di una quantità di risorse tali da consentire a sei miliardi di uomini di vivere secondo lo standard americano, né è in grado di smaltire la stratosferica mole di prodotti di rifiuto che la invaderebbe e che finirebbe per soffocarla.
Nel 2005, mentre un inarrestabile flusso emigratorio, una specie di fiume umano, avanza dal sud del mondo e si dirige a nord, alla ricerca di una vita migliore, alcuni importanti centri di potere, come Russia, Europa, Cina e Giappone, s’interrogano sul ruolo che essi sono chiamati a svolgere nel pianeta, se cioè devono limitarsi a fare da comprimari agli Stati Uniti o se devono contribuire a creare un mondo multipolare, in sostituzione di quello monopolare, che ha iniziato ad esistere dopo la fine del comunismo. Per il momento, la Russia deve ancora risolvere la minaccia di disgregazione costituita dai nazionalismi interni, il Giappone preferisce tenersi lontano dalla politica internazionale, l’Unione Europea stenta a darsi un assetto stabile e non ha ancora un forte potere centrale, la Cina è tutta presa dal proprio sviluppo economico e trascura l’eventuale ruolo trainante che potrebbe svolgere nel mondo. Forse queste grandi potenze sperano di poter emulare gli Stati Uniti ma, come abbiamo osservato sopra, una simile evenienza è da ritenere catastrofica.
In conclusione, gli equilibri politici che andranno a caratterizzate il XXI secolo devono essere ancora disegnati. Non sappiamo in che direzione procederanno i popoli nei prossimi decenni, ma certo è da augurarsi che essi vorranno migliorare il mondo in cui vivono, soprattutto trovando valide risposte alla sete di giustizia che arde nei cuori di molti uomini. “È ancora necessario denunciare e combattere l’ingiustizia sociale. Il mondo non migliorerà certo da solo” (HOBSBAUM 2002: 460).

04. La religione

Il diffondersi della mentalità scientifica, dell’individualismo, dell’alfabetizzazione di massa, del facile accesso al sapere, dell’edonismo e del disincanto, favorisce l’affermazione di nuove religioni, certo non un superamento della religione.

04.1. Religioni moderne
In generale, “Nelle società antiche la vita religiosa e la vita sociale sono indistinguibili” (ABDALLAH, SORGO 2001: 151). Bisogna aspettare la Rivoluzione francese per separare lo Stato dalla Chiesa: “la società industriale è la prima nella storia umana a non essere fondata su un credo religioso” (ABDALLAH, SORGO 2001: 152). Da questo momento si diffonde un modo nuovo di vivere e concepire la religiosità: si affermano i movimenti fondamentalisti, che tendono a recuperare la piena e indiscutibile sacralità delle sacre scritture e delle antiche tradizioni, sorgono religioni apocalittiche, come quella dei Testimoni di Geova, i quali preannunciano un’imminente fine del mondo e il giudizio universale, si sviluppano anche i movimenti misterici, magia, ufologia e occultismo, che sono basati su concezioni esoteriche e paranormali, e si va diffondendo una religiosità personale e individualista, tipo «fai da te», la religione new age, dove si può trovare di tutto, che si traduce in un pullulare di sette di ogni tipo.
Tutto ciò testimonia che la funzione della religione non è ancora superata, che avvertiamo ancora il bisogno di ricorrere ad essa per risolvere i nostri problemi, che continuiamo a rivolgerci a Dio, come ultima e irriducibile speranza, di fronte ad una realtà che non riusciamo a controllare pienamente. “Credevamo di poter realizzare la giustizia sulla terra, vediamo che non è possibile, e ricorriamo alla speranza in Dio. Incombe su di noi la morte come evenienza ineludibile, sfuggiamo alla disperazione rivolgendoci a Dio e alla sua promessa di accoglierci nel suo regno eterno” (VATTIMO 1996: 13). Ancora oggi, dunque, a distanza di oltre due secoli dalla Rivoluzione francese, le religioni continuano a rivelarsi “come possibili guide per il futuro” (VATTIMO 1996: 17). Secondo Vattimo, la fede è ancora attuale, non la fede nelle Sacre Scritture, non la fede nei dogmi o nella chiesa, ma la fede in una speranza ultima, una fede che, come ci ha insegnato Pascal, non impegna ma può far comodo. “«Credere di credere», in fondo, vuol dire un po’ tutto questo: anche forse scommettere nel senso di Pascal, sperando di vincere ma senza esserne affatto sicuri” (VATTIMO 1996: 97).

03. L’economia

La telematica trova applicazione anche in campo commerciale e finanziario, dove all’utente è offerta la facoltà di confrontare i prezzi di un prodotto, fare acquisti, seguire l’andamento della borsa o investire i propri risparmi nel mercato azionario, alimentando la creazione di un nuovo clima culturale, che prende il nome di new economy e di globalizzazione. Il mercato mondiale si apre e bisogna competervi senza ombrelli protettivi. Per i paesi, dove il costo della manodopera è più basso, ciò costituisce un’occasione per incrementare l’occupazione e avviare un processo di crescita economica, mentre i paesi più ricchi avvertono le conseguenze della concorrenza a basso costo, specie se non riescono a ridurre anch’essi il costo del lavoro oppure ad elevare lo standard qualitativo dei loro prodotti.
Se, da un lato, l’economia capitalistica si rivela capace di produrre occupazione e ricchezza, dall’altra non sembra in grado di distribuire equamente la ricchezza che produce, la quale tende a concentrarsi nelle mani di pochi, a creare cartelli e monopoli. “Ogni capitalista sogna di essere il monopolista nel suo settore di attività: senza concorrenti, farebbe il massimo di profitti” (RAMPINI 2000: 119-20). Si tratta insomma di un sistema che incrementa le disuguaglianze sociali e produce ingiustizia. Il denaro non si limita a creare ricchezza: la sposta. “È da quando ha preso piede l’economia monetaria –scrive Massimo Fini– che le disuguaglianze non hanno fatto che aumentare” (1998: 257). “La ricchezza aumenta, la popolazione impoverisce. C’è qualcosa che non quadra” (FINI 1998: 251). “La disparità distributiva è enorme: il 20% della popolazione concentrata nei paesi ricchi dispone oggi dell’87% del reddito. Ne discende, ovviamente, che l’80% della popolazione sopravvive col restante 13% del reddito” (LANZA 1997: 41). Non solo il capitalismo genera ingiustizia: esso sembra anche difficilmente sostenibile nel lungo periodo, sia perché è eccessivamente vorace di risorse, che sono limitate, sia perché produce un inquinamento, che il pianeta non riesce a smaltire. Vedremo se l’uomo sarà capace di trovare una soluzione a queste sfide.
Oggi, la semplice constatazione che molte teorie contrastanti si contendono il campo, nessuna di esse essendo in grado di rendere ragione della complessa realtà dei fatti che concorrono a strutturare la sfera economica a livello mondiale, dev’essere ritenuta un segno inequivocabile che non esistono leggi assolute in economia. Nemmeno l’informatizzazione dei dati, l’impiego di denaro elettronico, la diffusione di Internet e della new economy hanno reso possibile la creazione di un mercato mondiale paritetico. Il principale ostacolo è legato al fatto che i vari paesi sono tra loro in varia misura interdipendenti, viaggiano a velocità molto differenti e quelli più avanzati appaiono indisponibili ad aiutare quelli in difficoltà. Le esigenze e le potenzialità di ciascun paese sono troppo diverse da quelle di ciascun altro per sperare di poter realizzare un libero mercato, regolato dalla libera domanda e dalla libera offerta. Un’economica libera potrebbe trovare attuazione solo se nel mondo regnasse un clima di pace e di stabilità, se le condizioni sociali e culturali dei vari paesi fossero simili, se a ciascun individuo fosse effettivamente riconosciuto il suo diritto ad un’esistenza dignitosa e se il senso della giustizia prevalesse sul perseguimento di interessi particolari. Ma così non è, e allora è giocoforza che l’economia è dipendente dai rapporti di forza fra le aziende e dalle politiche dei governi: il pesce più grosso mangia quello più piccolo.
Oggi nel mondo 1200 milioni di persone vivono in uno stato di carenza cronica dei mezzi necessari per la sussistenza e una gran parte di esse muore in giovane età per fame o per malattia. Non basta una disponibilità sufficiente di risorse per eliminare la povertà: è anche necessario che le risorse siano equamente distribuite e, talvolta, neppure questo si rivela sufficiente. Accade, infatti, che la sorte favorisca alcuni gruppi e si accanisca contro altri, sì da rendere necessario un adeguato atteggiamento solidale dei primi nei confronti dei secondi, che oggi manca. Oggi l’aiuto che i paesi ricchi sono disposti ad offrire a quelli poveri non solo è insufficiente, ma tende anche a diminuire: dal 1990 al 2000 esso è calato dallo 0,35% allo 0,22% del PIL. Vano sarebbe l’eventuale tentativo, da parte dei paesi poveri, di modificare gli equilibri internazionali con la forza, a causa della netta inferiorità dei loro armamenti, e non si vede come possa cambiare la situazione. “Utopico chiedere ai popoli ricchi di mettere a repentaglio i privilegi che si sono accaparrati. Chiedere loro il disarmo e una politica che consenta ai popoli poveri di diventare forti è come chiedere che i ricchi diano ai poveri mezzi per disfarsi dei ricchi” (SEVERINO 1997: 135). La new economy, da sola, non basta a rendere il mondo migliore.

03.1. L’etica del denaro
Ai tempi antichi, la libera iniziativa individuale era ridotta al minimo e gli scambi commerciali, per lo più realizzati in forma di baratto, erano limitati alle corti dei re e ai palazzi dei grandi signori. La moneta e il mercato facevano la loro comparsa, insieme alla figura del mercante, intorno al VII-VI secolo, ma il loro spazio era limitato, anche perché la cultura dominante era favorevole al lavoro produttivo, nelle campagne e nelle industrie, ma contraria alle attività di tipo finanziario. Nell’antica Grecia, per esempio, il mercante era socialmente screditato e disprezzato da tutti. Scomparso dopo la caduta dell’Impero romano, il denaro ricompariva in Europa, dopo circa mille anni di letargo, insieme al rifiorire delle città e alla parziale rivalutazione della figura del mercante. La banconota nasceva in Inghilterra nel 1694, e da qui si diffondeva negli altri paesi.
Fino alla Rivoluzione industriale, l’uso del denaro ha occupato un posto minoritario rispetto allo scambio naturale e all’economia di tipo comunitario e collettivista, ma, a partire da quel momento, ha fatto registrare una crescita di ruolo impressionante, insieme alla rivalutazione della figura del mercante, che ora si chiama imprenditore. L’imprenditore risparmia, investe, calcola e pianifica; il denaro rappresenta lo scopo della sua vita; l’economia diventa “monetaria” e si diffondono le banche. I grandi proprietari terrieri recintano le loro terre e per tanti contadini non rimane altro che andare a lavorare nelle fabbriche, dove vendono il loro lavoro in cambio di un salario (lavoro-merce): da persone autosufficienti diventano consumatori. L’industria produce una grande quantità di beni e crea nuovi bisogni. Per tutto ci vuole denaro, ma, dal momento che il salario di un capofamiglia generalmente non è sufficiente a soddisfare i bisogni del nucleo familiare, ecco che si mandano a lavorare anche i figli, già a partire dai 7 anni. Non tutti però riescono a trovare una sistemazione nelle fabbriche e iniziano i fenomeni, prima sconosciuti, di disoccupazione e di povertà di massa, e si crea una nuova scala sociale: all’apice, insieme al vecchio nobile, si colloca l’imprenditore, la cui possibilità di profitto è teoricamente illimitata; all’ultimo scalino il disoccupato, che è costretto a vivere di espedienti, se non di atti criminosi.
Weber ritiene che la nuova mentalità sia stata favorita dalla religione calvinista, che vede nella fortuna materiale un segno della benevolenza divina. Secondo la stessa logica, il povero dev’essere portatore di qualche colpa di fronte a Dio e quindi merita la sua condizione. Se la ricchezza è grazia di Dio, più ne hai e meglio è. Ma anche se la religione non c’entrasse un bel niente con lo spirito capitalistico, la realtà non cambierebbe e la sete di guadagno rimarrebbe inestinguibile. “Il denaro non offre altro metro di giudizio che la quantità” (FINI 1998: 233). Così il ricco non è mai pago e continua ad accumulare, senza limiti. Qualunque cosa abbia, egli guarda sempre più lontano e, infine, al mondo intero. Questo è il senso della cosiddetta globalizzazione economica: “un unico mercato mondiale regolato secondo le logiche e i metodi del denaro” (FINI 1998: 176). Chi non si allinea è perduto. Che sia stato il calvinismo, o meno, il fatto è che, intorno alla metà dell’Ottocento, inizia l’era del capitalismo moderno, nella quale il denaro è tutto: “col denaro si può comprare tutto, tutto può essere ridotto a merce” (FINI 1998: 31-2). “Tutto ha un prezzo, tutto è monetizzabile, tutto è denaro” (FINI 1998: 81). “Da utile mezzo è diventato fine, da servo si è fatto padrone, crediamo di maneggiarlo e invece ci manipola, crediamo di usarlo e invece ci usa, crediamo di muoverlo e invece ci fa muovere, anzi trottare, crediamo di possederlo e invece ci possiede” (FINI 1998: 12). Secondo Saint-Simon, “Il denaro è per il corpo politico quello che il sangue è per il corpo umano. Ogni parte in cui il sangue cessa di circolare langue e non tarda a morire” (tratto da MATTELART 1998: 101).
Se riconsideriamo la storia del denaro, possiamo notare che essa è passata attraverso fasi ben distinte. Inizialmente il denaro era costituito da un certo bene, per esempio dalla pecora, e tutti gli altri beni vengono valutati in numero di pecore (un sacco di grano vale 1 pecora, un carro 10 pecore, una casa 100 pecore, e via dicendo). In una seconda fase si coniano monete in metallo prezioso, oro e argento, cui si attribuisce un valore intrinseco. In una terza fase si stampano banconote, prive di valore proprio. In una quarta fase il denaro diventa elettronico, si limita cioè a semplici bit che transitano a un computer all’altro. “Non si scambia più bene contro bene, merce contro merce, ad esempio grano contro bovini, ma il bene viene trasformato in denaro, il mezzo di scambio comunemente accettato che può essere usato in altri mercati per l’acquisto di altri beni” (NORTH 1998: 8).
Oggi l’operatore finanziario gestisce il denaro che investitori ignoti gli hanno affidato per farlo fruttare. Il denaro elettronico si può spostare, dare in prestito, investire, impiegarlo in speculazioni finanziarie di ampia portata e in complessi giri di corruzione. Il mancato rapporto personale si traduce in un allentamento del codice morale: quello che conta è la resa economica, non importa come. I grandi finanzieri si muovono in un mondo dove la mancanza di scrupoli è la regola, e di ciò non si ritengono colpevoli, non avvertono sensi di colpa. Perfino la giustizia ha dovuto subire le conseguenze del profondo cambiamento di cui è stato fatto oggetto la sfera morale. Oggi per lo più viene condannato il piccolo criminale, chi non ha abbastanza soldi per difendersi. Facilmente il giudice stabilisce che egli è un ladro, e così lo vede la gente. Ma, per chi traffica denaro ad alto livello, non solo la macchina della giustizia si muove con lentezza, ma anche la gente comune tende ad applicare un’etica benevola e indulgente. Insomma, “se rubi 100 mila lire sei inequivocabilmente un ladro, ma se rubi qualche decina di miliardi, come è provato dalla cronaca odierna, sei un grande imprenditore o un abile e funambolico finanziere” (FINI 1998: 220). La gente si inchina di fronte ai soldi, non importa come siano stati guadagnati, e il ricco è fatto oggetto di grande rispetto e gode di un’elevata considerazione sociale, a meno che non sia tanto sprovveduto o sfortunato da farsi scoprire e condannare.